GENE WOLFE
LA SPADA DEL LITTORE
(The Sword Of The Lictor, 1981)
I
IL SIGNORE DELLA CASA DELLE CATENE
— Era nei miei capelli, Severian — disse Dorcas. — Così, sono rimasta sotto la cascata, nella sala delle pietre calde... non so se il reparto maschile è disposto nello stesso modo. Ogni volta che sono venuta fuori dall'acqua, le ho sentite parlare di me; e chiamavano te il macellaio nero, ed in altri modi che non voglio riferirti.
— È abbastanza normale — osservai. — Probabilmente, eri la prima straniera che entrava in quel luogo da un mese a questa parte, e c'era da aspettarsi che avrebbero spettegolato sul tuo conto, e che le poche donne che sapevano chi eri sarebbero state orgogliose di questo ed avrebbero forse raccontato qualche storia. Quanto a me, ci sono abituato, e tu devi aver udito parecchie volte espressioni di questo tipo lungo la strada che abbiamo percorso per venire qui. Io le ho sentite.
— Sì — ammise Dorcas, sedendo sul davanzale della finestra. Nella città sottostante, le luci degli affollati negozi cominciavano a rivestire la valle dell'Acis di una luce gialla, simile al colore dei petali di uno jonquil; ma Dorcas non parve notarlo.
— Ora comprendi perché il regolamento della corporazione mi proibisce di prendere moglie... anche se sono pronto ad infrangere tale regolamento per te, come ti ho detto più volte... in qualsiasi momento tu me lo chieda.
— Intendi dire che sarebbe meglio vivere da qualche altra parte e venire a trovarti solo una o due volte la settimana o attendere che tu venga a trovare me?
— Solitamente, è così che si fa. Ed alla fine, le donne che oggi parlavano di noi comprenderanno che potrebbero un giorno trovarsi loro stesse, o i loro figli e mariti, sotto le mie mani.
— Ma non capisci che non è questo il punto? Il fatto è che... — Dorcas s'interruppe e divenne silenziosa, e, dopo che nessuno dei due ebbe pronunciato parola per parecchio tempo, si alzò e prese a camminare per la stanza, le braccia serrate una nell'altra. Era una cosa che non le avevo mai visto fare prima, e mi turbò.
— Ed allora qual è? — le chiesi.
— Che ciò che non era vero allora lo è adesso.
— Ho praticato la mia Arte dovunque c'era lavoro da fare, sono stato assoldato dalle corti di città e di campagna, e tu mi hai guardato parecchie volte da una finestra, anche se non ti è mai piaciuto mescolarti alla folla, cosa di cui non ti posso biasimare.
— Non ti ho guardato — replicò Dorcas.
— Ricordo di averti vista.
— Non l'ho fatto, almeno non quando l'esecuzione era in corso: tu eri intento in quello che stavi facendo, e non ti sei mai accorto quando rientravo o mi coprivo gli occhi. Mi piaceva guardarti, e farti un cenno di saluto, quando balzavi sulla piattaforma: allora eri così orgoglioso, eretto quanto la tua spada, ed apparivi così splendido. Eri onesto. Rammento una volta, quando c'erano con te sul palco un ufficiale, il condannato ed un hieromonaco, e l'unico volto onesto era il tuo.
— Non è possibile che tu abbia visto questo: certo portavo una maschera.
— Severian, non avevo bisogno di vedere: io so qual è il tuo aspetto.
— Ho lo stesso aspetto anche ora?
— Sì — ammise Dorcas con riluttanza, — ma sono stata là sotto, ed ho visto la gente incatenata nelle gallerie. Quando stanotte ci coricheremo nel nostro soffice letto, dormiremo sopra di loro. Quanti hai detto che erano, quando mi hai condotta laggiù?
— Circa seicento. Tu credi onestamente che quei seicento sarebbero liberi, se non ci fossi più io a sorvegliarli? Ricorda che li abbiamo trovati qui al nostro arrivo.
— È come una tomba comune — rispose Dorcas, senza guardarmi, e notai che le tremavano le spalle.
— Dovrebbe esserlo — replicai. — L'arconte li potrebbe liberare, ma chi potrà mai far risuscitare coloro che essi hanno ucciso? Tu non hai mai perso nessuno, vero?
Non mi rispose.
— Chiedi alle mogli ed alle madri ed alle sorelle degli uomini che i nostri prigionieri hanno ucciso — continuai, — e lasciato a marcire sulle montagne, se Abdiesus li dovrebbe rilasciare omeno.
— Solo a me stessa — rispose Dorcas, e spense la candela con un soffio.
Thrax è come una daga storta che penetri nel cuore delle montagne. Essa sorge nello stretto passo della valle dell'Acis e si estende su fino al Castello di Acies; l'arena, il pantheon e gli altri edifici pubblici si trovano tutti nel tratto pianeggiante fra il castello ed il muro (chiamato il Capulus) che chiude la sezione inferiore di quella stretta parte della valle. Gli edifici privati della città s'inerpicano su per le pareti delle colline su entrambi i lati, e molti di essi sono in buona parte scavati nella roccia stessa, caratteristica, questa, da cui Thrax deriva uno dei suoi soprannomi... quello di Città dalle Stanze Senza Finestre.
Thrax deve la sua prosperità al fatto di sorgere alla fine del tratto navigabile del fiume, per cui tutte le merci spedite a nord sull'Acis, (molte delle quali hanno percorso nove decimi della lunghezza del Gyoll prima d'imboccare quello stretto fiume, che potrebbe effettivamente essere la vera sorgente del Gyoll) devono essere qui scaricate a terra e caricate su animali da soma, se si vuole portarle oltre. Al contrario, i capi delle tribù di montagna ed i proprietari terrieri che desiderano spedire la lana ed il granoturco verso le città del sud, li caricano sui battelli a Thrax, al disotto della cataratta che passa ruggendo dall'arcuato sfioratore del Castello di Acies.
Come accade sempre nei casi in cui una roccaforte impone la legge ad una regione turbolenta, l'amministrazione della giustizia costituiva la principale preoccupazione dell'arconte della città. Per imporre la propria volontà a coloro che vivevano al di fuori delle mura della città, e che altrimenti vi si sarebbero potuti opporre, l'arconte disponeva di sette squadroni di dimarchi, ciascuno agli ordini di un diverso comandante. La Corte si riuniva ogni mese, dal primo apparire della luna nuova fino alla sua pienezza, a partire dal secondo turno di guardia del mattino fino a quando fosse stato necessario per sbrigare tutti i casi della giornata. Come capo carnefice ed esecutore delle sentenze dell'arconte, io dovevo presenziare a quelle sessioni, in modo che l'arconte potesse essere certo che le sentenze da lui stabilite non sarebbero state né alleggerite né appesantite da coloro che fossero eventualmente stati incaricati di riferirmele. Inoltre, avevo il compito di sovrintendere alle operazioni svolte nel Vincula, dove erano detenuti i prigionieri, fin nei più piccoli dettagli; in scala minore, le mie attuali responsabilità equivalevano a quelle di Maestro Gurloes nella nostra Cittadella, e, durante le prime settimane che trascorsi a Thrax, questo gravò molto su di me.
Maestro Gurloes soleva dire che nessuna prigione ha una collocazione ideale, e quella massima, come la maggior parte dei saggi detti utilizzati per l'educazione dei giovani, era ad un tempo indiscutibile e non forniva alcun aiuto. Tutte le evasioni ricadono in tre categorie... cioè, quelle effettuate con il sotterfugio, quelle realizzate con la violenza e quelle portate a termine per mezzo del tradimento degli uomini di guardia. Un luogo isolato è molto adatto a rendere praticamente impossibili le evasioni furtive, e per questa ragione simili luoghi sono sempre stati preferiti da coloro che hanno a lungo riflettuto sull'argomento.
Sfortunatamente, i deserti, le cime delle montagne e le isole solitarie offrono il più fertile dei terreni per una fuga da effettuarsi con la violenza... se le prigioni vengono assediate dagli amici dei prigionieri è difficile venire a conoscenza della c'osa prima che sia troppo tardi ed è quasi impossibile inviare rinforzi alle loro guarnigioni; similmente, se i prigionieri dovessero ribellarsi, è altamente improbabile che si riesca a far pervenire sul posto le truppe prima che la questione si risolva da sola.
La collocazione in un distretto popoloso e ben difeso elimina questi problemi, ma ne fa sorgere altri anche peggiori: in simili luoghi, non è necessario che il prigioniero abbia centinaia di amici, ne bastano anche solo uno o due, e non è neppure necessario che questi due siano uomini d'armi... bastano anche una donna delle pulizie ed un ambulante, se sono persone intelligenti e risolute. Per di più, una volta che il prigioniero è riuscito a superare le mura, viene fagocitato da una folla senza volto, per cui la sua cattura non è più un affare per cani e cacciatori di uomini, ma piuttosto per agenti ed informatori.
Nel nostro caso, era fuori discussione poter pensare ad una prigione distaccata ed isolata: anche se una simile prigione fosse stata dotata di un numero sufficiente di soldati, in aggiunta ai carcerieri, che permettesse di respingere gli attacchi degli autoctoni, degli zoantropi e dei coltellarii che vagabondavano per la regione, per non parlare delle truppe personali degli esultanti (su cui non si poteva fare mai affidamento), sarebbe comunque stato impossibile far arrivare i rifornimenti senza dotare di una scorta armata i convogli che li trasportavano. Il Vincula di Thrax, pertanto, era per forza di cose collocato all'interno della città, e precisamente a metà del pendio collinare della riva occidentale ed a mezza lega circa dal Capulus.
Il Vincula è una struttura antica, ed io ho sempre avuto l'impressione che fosse stato concepito come prigione fin dall'inizio, anche se, stando alla leggenda, in origine sarebbe stato una tomba, solo negli ultimi secoli allargata e convertita al suo nuovo scopo. Agli occhi di un osservatore che si trovi sulla più spaziosa riva orientale, esso appare come una bertesca rettangolare sporgente dalla roccia, una bertesca che, sul Iato a lui visibile, sembra essere di quattro piani, il cui tetto piatto ed orlato di merli termina contro la roccia della collina. Questa parte visibile, che coloro che visitano la città devono scambiare per l'intera struttura della prigione, è in realtà la parte più piccola e meno importante del Vincula, e, al tempo in cui io ero il Littore, non conteneva che i nostri uffici amministrativi, gli alloggi dei clavigeri ed il mio appartamento.
I prigionieri erano alloggiati in una galleria inclinata scavata nella roccia, e la loro sistemazione non era realizzata né mediante celle individuali simili a quelle che avevamo noi per i nostri clienti nelle segrete, a casa, né mediante una grande stanza comune, del tipo che avevo visto applicato quando ero stato rinchiuso nella Casa Assoluta. Qui, invece, i prigionieri erano incatenati lungo le pareti della galleria, ciascuno con un resistente collare di ferro intorno al collo, in modo da lasciare nel centro uno spazio abbastanza largo perché due clavigeri potessero camminarvi affiancati senza correre il rischio che venissero loro sottratte le chiavi dalla cintura.
La galleria era lunga circa cinquecento passi e permetteva di ospitare più di mille prigionieri. La necessaria provvista d'acqua proveniva da una cisterna incassata nella roccia sulla cima della collina, e gli escrementi e l'altra sporcizia venivano eliminati facendo scorrere l'acqua nella galleria ogni qualvolta la cisterna minacciava di traboccare, mentre uno scolatoio praticato nella parte inferiore della galleria convogliava l'acqua di scolo fino ad un condotto che attraversava la parete del Capulus per svuotarsi nell'Acis a valle della città.
In origine, la bertesca rettangolare aggrappata alla roccia e la galleria stessa dovevano aver costituito l'intero complesso del Vincula, ma la sua struttura era stata in seguito complicata da un confuso labirinto di gallerie di diramazione o parallele, risultanti da precedenti tentativi di liberare qualche prigioniero scavando un tunnel dall'una o dall'altra casa privata e da successivi scavi eseguiti appositamente per frustrare simili tentativi... tutte gallerie che venivano attualmente utilizzate per sistemare altri prigionieri.
La presenza di quei tunnel imprevisti o malamente progettati rese il mio compito molto più difficoltoso di quanto lo sarebbe stato altrimenti, ed uno dei miei primi atti fu quello d'iniziare un programma di chiusura dei passaggi indesiderati o inutili riempiendoli con una mistura di pietre di fiume, sabbia, acqua, calce bruciata e ghiaia, unendo ed ampliando al contempo quei passaggi che si trovavano in posizione tale da poter finalmente dare una struttura razionale al tutto. Sebbene fosse necessario, quel lavoro poteva essere portato avanti solo molto lentamente, dato che non era possibile liberare più di un centinaio di prigionieri alla volta per farli lavorare, e che questi erano di solito in ben misere condizioni.
Nelle prime settimane successive al nostro arrivo, i miei doveri non mi lasciarono troppo tempo per altro; Dorcas si dedicò all'esplorazione della città, ed io le diedi espressamente incarico di chiedere in giro, per mio conto, informazioni sulle Pellegrine. Durante il lungo viaggio da Nessus, la consapevolezza di avere con me l'Artiglio del Conciliatore aveva costituito un pesante fardello, ed ora che non viaggiavo più e non potevo nemmeno tentare di rintracciare le Pellegrine lungo il cammino o anche solo rassicurarmi con il pensiero che stavo camminando nella direzione che me le avrebbe fatte un giorno incontrare, esso era divenuto un peso quasi insostenibile. Mentre viaggiavamo, avevo dormito sotto le stelle con la gemma, nascosta nella punta dello stivale, che riposava sul fondo di esso, nelle rare occasioni in cui eravamo riusciti a dormire al coperto; ora scoprii che non riuscivo a dormire se non l'avevo vicino a me, in modo da potermi accertare, quando mi fossi svegliato nella notte, di esserne sempre in possesso. Dorcas mi cucì un piccolo sacchetto di pelle di daino perché ve la riponessi, ed io presi a portarlo intorno al collo giorno e notte. Una dozzina di volte, durante quelle prime settimane, sognai di vedere la gemma illuminata, sospesa su di me nell'aria come lo era stata la cattedrale in fiamme, ed allora mi destavo e notavo che essa stava brillando tanto che una debole luce trapelava attraverso il cuoia sottile. Una volta o due per notte, poi, mi svegliavo per scoprire che ero steso sulla schiena e che il sacchetto sul mio petto era divenuto talmente pesante (sebbene potessi sollevarlo senza sforzo con la mano) che sembrava schiacciarmi a morte.
Dorcas fece tutto quello che poteva per confortarmi ed assistermi, ma io vedevo che era anch'ella consapevole del brusco cambiamento avvenuto nel nostro rapporto e che ne era più turbata di quanto lo fossi io. Giudicando in base alla mia esperienza, i cambiamenti sono sempre una cosa spiacevole... se non altro perché implicano la probabilità che si verifichino successivamente ulteriori mutamenti. Mentre viaggiavamo insieme (ed avevamo sempre viaggiato, più o meno rapidamente, dal momento in cui Dorcas mi aveva aiutato ad uscire, semiaffogato, dalle acque del Giardino del Sonno Eterno, issandomi sul galleggiante passaggio di canne), eravamo stati compagni ed eguali, e ciascuno di noi aveva percorso, camminando o cavalcando, ogni lega a fianco dell'altro. Se io avevo fornito a Dorcas una certa protezione fisica, lei aveva fornito a me in eguai misura una certa protezione morale, consistente nel fatto che pochi potevano pretendere a lungo di disprezzare la sua innocente bellezza o professare orrore per la mia professione, quando, guardando me, non potevano fare a meno di vedere anche lei. Dorcas era stata la mia consigliera nella perplessità e la mia camerata in centinaia di luoghi deserti.
Ma, quando finalmente entrammo in Thrax, ed io presentai all'arconte la lettera del Maestro Palaemon, tutto quello che era necessità fini. Non dovevo più temere la folla a causa del mio abito di fuliggine, ma piuttosto ero io ad essere temuto, come più alto ufficiale del ramo più rispettato del potere dello stato. Ora Dorcas viveva non più come una mia eguale, ma come se fosse stata, così l'aveva definita una volta la Cumana, la mia amante, nell'appartamento del Vincula a me riservato. I suoi consigli erano divenuti inutili o quasi, perché le difficoltà che ora mi opprimevano erano di carattere legale ed amministrativo, problemi che ero stato addestrato ad affrontare e di cui lei non sapeva nulla, e soprattutto perché raramente avevo il tempo e le energie necessari per spiegarle la natura di quei problemi, in modo che li potessimo discutere insieme.
Così, mentre rimanevo, un turno di guardia dopo l'altro, nella corte dell'arconte, Dorcas prese l'abitudine di gironzolare per la città, e noi, che eravamo rimasti sempre insieme durante l'ultima parte della primavera, giungemmo, ora che era estate, al punto di non vederci quasi più, condividendo appena il pasto serale e poi abbandonandoci esausti su un letto dove raramente facevamo qualcosa di più che addormentarci immediatamente, uno nelle braccia dell'altro.
Finalmente, arrivò la luna piena. Con quanta gioia la contemplai dal tetto della bertesca, verde come uno smeraldo nel suo manto di foreste e rotonda come il bordo di una coppa! Non ero ancora libero, dato che dovevo occuparmi di tutti i dettagli relativi alle pene ed all'amministrazione, che erano rimasti in sospeso durante la mia permanenza alla corte dell'arconte, ma almeno ero libero di dedicare a queste cose la mia piena attenzione, il che mi sembrava una cosa bella quasi quanto la libertà vera e propria. Il giorno successivo, invitai Dorcas a venire con me quando mi recai a fare un'ispezione nella parte sotterranea del Vincula.
Quello fu un errore: Dorcas si sentì male, in quell'aria fetida, circondata dai miseri prigionieri, e quella notte, come ho già riferito, mi disse di essere andata ai bagni pubblici (una cosa rara per lei, il cui terrore dell'acqua era tale da indurla a lavarsi un pezzetto alla volta, con una spugna che immergeva in un recipiente meno profondo di un piatto per la zuppa) per liberare la pelle ed i capelli dall'odore della galleria, e mi disse anche di aver sentito le custodi del bagno indicarla alle altre clienti.
II
SULLA CATERATTA
La mattina successiva, prima di lasciare la bertesca, Dorcas si tagliò i capelli, tanto da sembrare quasi un ragazzo, ed infilò una peonia bianca nel cerchietto che li tratteneva. Io faticai sui documenti fino al pomeriggio, quindi presi in prestito uno jelab da civile dal sergente dei miei clavigeri ed uscii, nella speranza d'incontrare Dorcas.
Il libro marrone che porto con me dice che non vi è nulla di più strano che esplorare una città del tutto differente dalle altre che si conoscono, perché è come esplorare un secondo ed insospettato noi stessi; ma io ho scoperto una cosa ancora più strana: esplorare una città di questo tipo solo dopo averci vissuto per qualche tempo senza apprendere nulla in merito ad essa.
Non sapevo dove si trovassero i bagni di cui aveva parlato Dorcas, per quanto fossi certo che esistevano, a causa dei discorsi che avevo udito nella corte. Non sapevo neppure dove si trovasse il bazar in cui Dorcas comprava abiti e cosmetici, e neppure se ce n'era più d'uno: in poche parole, non conoscevo nulla, tranne il poco che potevo vedere dalle mie finestre ed il breve tragitto dal Vincula al palazzo dell'arconte. Forse ero un po' troppo sicuro di riuscire ad orientarmi in una città tanto più piccola di Nessus, ma anche così presi ugualmente la precauzione, di tanto in tanto, mentre camminavo lungo le strade ricurve che discendevano la collina fra case scavate nella roccia o che sporgevano da essa, di controllare se mi era possibile ancora vedere la familiare sagoma della bertesca, con la porta sprangata ed il gonfalone nero.
A Nessus, i ricchi vivono verso nord, dove le acque del Gyoll sono più pure, ed i poveri a sud, dove il fiume è sporco. Qui a Thrax, quel costume non era più osservato, sia perché l'Acis scorreva tanto rapido che gli escrementi di coloro che abitavano a nord (e che erano, naturalmente, la millesima parte di coloro che vivevano lungo le sponde settentrionali del Gyoll) non ne contaminavano quasi le acque, sia perché l'acqua pulita prelevata dalla cateratta veniva convogliata alle fontane pubbliche ed alle case dei ricchi per mezzo di acquedotti: in tal modo, non occorreva far ricorso al fiume se non quando erano necessari grossi quantitativi d'acqua, per scopi industriali o di lavanderia.
Così, a Thrax, la distinzione era data dall'elevazione: i più ricchi vivevano sui pendii più bassi e vicini al fiume, a breve distanza dai negozi e dagli uffici pubblici, da dove potevano con una breve passeggiata raggiungere i moli e spostarsi per tutta la lunghezza della città su caìcchi dai remi azionati da schiavi. Coloro che erano leggermente meno ricchi avevano le loro case un po' più in alto, la classe media dimorava di solito ancora più su, e così via, fino a che i più poveri abitavano ai piedi delle fortificazioni sulla vetta delle colline, spesso in jacals di fango e canne, che potevano essere raggiunti solo per mezzo di una scala a pioli.
Avrei avuto modo in seguito di visitare qualcuno di quei luoghi miserevoli, ma, per il momento, rimasi nel quartiere commerciale, vicino all'acqua. Là, le strette strade erano talmente affollate di gente, che all'inizio pensai fosse in corso qualche festa, o che forse la guerra... che mi era parsa così remota mentre rimanevo a Nessus, ma che era divenuta sempre più incombente man mano che io e Dorcas viaggiavamo verso nord... era adesso tanto vicina da riempire la città di coloro che fuggivano dinnanzi ad essa.
Nessus è tanto estesa che ha, così ho sentito dire, cinque edifici per ogni abitante; a Thrax, quella proporzione era certo invertita, e quel giorno avevo talvolta l'impressione che dovessero esservi cinquanta abitanti per edificio. Inoltre, Nessus è una città cosmopolita, dove s'incontrano molti stranieri, e di tanto in tanto perfino qualche cacogeno venuto con la sua nave da altri mondi; ma, nonostante questo, noi eravamo consapevoli del fatto che quelli erano stranieri, lontani dalle loro case. Qui le strade traboccavano di gente, la cui diversa umanità rifletteva però semplicemente la diversa natura dei vari insediamenti montani, per cui, quando vedevo, per esempio, un uomo dal cappello fatto con la pelle di un uccello le cui ali erano usate come paraorecchi, o un uomo con un irsuta giacca di pelle di kaberu, o un uomo con la faccia tatuata, sapevo che avrei potuto incontrare centinaia di altri membri della stessa tribù appena svoltato l'angolo.
Quegli uomini erano eclettici, discendenti da coloni del sud che avevano mescolato il loro sangue con quello dei tozzi e scuri autoctoni, adottando alcuni dei loro costumi e mescolandoli con altri acquisiti dagli anfitrioni che vivevano più a nord e con quelli, in alcuni casi, di popoli anche meno noti, commercianti e razze circoscritte.
Molti di quegli eclettici preferiscono come armi i coltelli ricurvi, o, come dice talvolta qualcuno, piegati... armi che hanno due sezioni relativamente diritte con una piega a gomito verso la punta. Si dice che quella forma renda più facile trapassare il cuore colpendo da sotto il diaframma; le lame sono irrigidite da un'ossatura centrale, sono affilate su entrambi i lati e molto taglienti. Non hanno elsa, e le impugnature sono, di solito, d'osso. (Ho descritto dettagliatamente questi coltelli perché sono caratteristici di quella regione più di qualsiasi altra cosa, e perché è da essi che Thrax trae un altro dei suoi nomi: la Città dei Coltelli Ricurvi. Esiste inoltre una somiglianza fra la pianta della città e la lama di quei coltelli: infatti la curva della gola corrisponde a quella della lama, il fiume Acis è l'ossatura centrale, il Castello di Acies la punta ed il Capulus la linea lungo la quale la lama svanisce nell'impugnatura.)
Uno dei custodi della Torre dell'Orso mi disse una volta che non esiste animale tanto pericoloso o selvaggio ed indomabile quanto l'ibrido risultante dall'accoppiamento di un cane da combattimento con una lupa. Noi siamo abituati a pensare che le bestie che abitano le foreste e le montagne siano selvagge, ma la verità è che esistono certi animali domestici molto più selvaggi e malvagi (come noi noteremmo se non fossimo così abituati alla cosa), nonostante comprendano il linguaggio dell'uomo e riescano talvolta a pronunciare qualche parola. Così, esiste una vena selvaggia molto più profonda negli uomini e nelle donne i cui antenati hanno vissuto nelle città fin dagli albori dell'umanità.
Vodalus, nelle cui vene scorreva il sangue puro di un migliaio di esultanti... exarchi, etnarchi e starosti... era capace di atti di violenza inimmaginabili verso gli autoctoni che si aggiravano per le vie di Thrax, nudi sotto i mantelli di huanaco.
Come i bastardi derivanti da un cane ed una lupa (che io non ho mai visto perché erano troppo feroci per poter essere utili), questi eclettici derivavano tutto ciò che era più crudele ed incontrollabile, dalla loro ascendenza mista: come amici o seguaci erano cupi, sleali e litigiosi, come nemici erano fieri, traditori e vendicativi. Così, almeno, avevo sentito dire dai miei subordinati all'interno del Vincula, dato che gli eclettici componevano circa la metà dei detenuti
Non ho mai incontrato un uomo, di cui il linguaggio, l'abbigliamento e le usanze mi siano sconosciuti, senza speculare sulla natura delle donne della sua razza. Esiste sempre un collegamento, dato che i due sono prodotti diversi di una stessa cultura, così come le foglie di un albero, che si possono vedere, ed i frutti di quell'albero, che non si vedono perché nascosti dalle foglie, sono prodotti dello stesso organismo. Ma l'osservatore che volesse azzardarsi a predire l'aspetto ed il profumo del frutto in base all'aspetto dei pochi rami fronzuti visibili a distanza, deve sapere molte cose sulle foglie e sui frutti, se non si vuole coprire di ridicolo.
Uomini guerrieri possono essere generati da donne languide, oppure possono avere sorelle altrettanto forti quanto loro ed anche più risolute. E così io, camminando fra quella folla, che sembrava composta per la maggior parte di eclettici e di cittadini (che non mi sembravano molto dissimili dai cittadini di Nessus, salvo che per il fatto che il loro vestiario e le loro maniere erano alquanto più rozze), mi sorpresi a speculare sul conto di donne dagli occhi e dalla pelle scura, donne dai lucidi capelli neri fitti come le criniere arcuate dei destrieri dei loro fratelli, donne di cui immaginavo i volti forti eppure delicati, donne capaci di una feroce resistenza e di una rapida resa; donne che potevano essere vinte ma non comprate... ammesso che simili donne esistessero al mondo.
Dall'immagine dei loro corpi, le mie fantasticherie si spostarono sul luogo in cui esse vivevano, le solitarie capanne accoccolate vicino ad una sorgente montana, gli yurts di pelli che sorgevano isolati sugli alti pascoli. Presto, il pensiero delle montagne m'intossicò quanto mi aveva una volta intossicato il pensiero del mare, prima che il Maestro Palaemon mi fornisse l'esatta collocazione di Thrax. Quanto sono gloriosi, quegli inamovibili idoli di Urth, intagliati con oggetti e strumenti inimmaginabili in un tempo inconcepibilmente antico, e che levavano ancora sull'orlo del mondo le cupe teste con mitre, tiare e diademi brillanti di neve, teste i cui occhi erano grandi quanto città, figure le cui spalle erano vestite di foreste!
Così, camuffato nell'opaco jelab di un qualsiasi cittadino, mi feci strada a forza di gomiti nelle strade piene di gente e che puzzavano di escrementi e di cibo, mentre la mia immaginazione contemplava immagini di pietre sospese e di ruscelli cristallini.
Credo che Thecla fosse stata condotta almeno ai piedi di quelle vette, senza dubbio per sfuggire al calore di qualche estate particolarmente torrida, poiché molte delle immagini che mi apparivano nella mente (a quanto sembrava in modo spontaneo), erano chiaramente infantili. Vidi piante che crescevano sulle rocce; contemplai i loro fiori virginali con un'immediatezza visiva che nessun adulto può ottenere senza inginocchiarsi; osservai abissi che mi parvero non solo spaventosi ma anche traumatizzanti, come se la loro semplice esistenza fosse un affronto alle leggi di natura; picchi tanto alti che sembravano letteralmente non avere vetta, come se tutto il mondo stesse da sempre precipitando giù da un qualche inimmaginabile Paradiso che stringeva ancora nella sua presa quelle montagne.
Dopo aver attraversato quasi tutta la città, raggiunsi finalmente il Castello di Acies. Mi feci riconoscere dalle guardie della posteria e mi venne permesso di entrare e di salire in cima al dongione, così come una volta ero salito in cima alla nostra Torre di Matachin prima di dire addio al Maestro Palaemon.
Quando ero salito sulla Torre per dire addio all'unico luogo che avessi mai conosciuto, mi ero trovato su uno dei punti più alti della Cittadella, che sorgeva a sua volta su una delle maggiori elevazioni dell'intera area di Nessus. Allora la città era apparsa stesa sotto di me fino ai limiti della visibilità, con il Gyoll che tracciava attraverso essa una linea di fango verde simile alla scia lasciata su una mappa da una lumaca; perfino il Muro era visibile all'orizzonte, in certi punti, e non c'era nei dintorni costruzione abbastanza elevata da proiettare la sua ombra su di me.
Quassù, l'impressione era totalmente differente: mi trovavo a cavallo dell'Acis, che balzava giù verso di me in una successione di salti su gradini di roccia, ciascuno alto due o tre volte più di un albero, fino a che, ridotto ad un ammasso ribollente di schiuma che brillava al sole, non scompariva poi sotto di me per riapparire quindi come un lungo nastro d'argento che scorreva attraverso la città all'interno dei suoi argini, e che mi ricordava (ma non ero io, bensì Thecla, a ricordare) un villaggio giocattolo racchiuso in una scatola che avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno.
Eppure mi trovavo al fondo di una coppa: da ogni lato, le pareti di pietra si levavano erte, tanto che, a guardarle, ci si sentiva indotti, per un momento almeno, a credere che la gravità fosse stata contorta fino a trovarsi ad angolo retto con il suo vero io per opera di qualche moltiplicazione effettuata da un mago con numeri immaginari, e che le vette che scorgevo fossero in realtà la vera superficie piana del mondo.
Credo che fissai quei muri per più di un turno di guardia, osservando la ragnatela di spruzzi intessuta dalle cascate che scendevano con un rombo di tuono ad unirsi all'Acis e guardando le nubi, che, intrappolate fra quelle pareti di roccia, sembravano premere morbidamente contro quei fianchi inamovibili, simili a pecore sconcertate ed affrante rinchiuse in un recinto di pietra.
Alla fine, mi stancai di contemplare la magnificenza delle montagne e di sognare i miei sogni... o meglio, più che stancarmi, ne rimasi come intontito fino al punto che la testa prese a girarmi e mi parve di vedere quelle vette spietate anche quando chiudevo gli occhi; compresi che quella notte, e per molte notti a venire, nei miei sogni sarei caduto da quei precipizi, o sarei rimasto sospeso, aggrappato con le dita insanguinate, alle loro pareti spietate.
Allora mi volsi con decisione verso la città, e mi rassicurai contemplando la bertesca del Vincula, che mi appariva ora un cubo di dimensioni molto modeste, aggrappato ad una collina che sembrava appena un rivolo insignificante, se paragonata alle immense onde di pietra che la circondavano. Osservai il corso delle strade principali, cercando (come in un gioco, per rinfrancarmi dopo la lunga contemplazione delle montagne) di identificare quelle che avevo percorso per arrivare al castello e di osservare da quella nuova prospettiva gli edifici e le piazze del mercato che avevo già visto all'andata. Cercai d'individuare i bazar, e scoprii che ce n'erano due, uno su ciascuna riva del fiume; quindi cercai i familiari punti di riferimento che avevo imparato a riconoscere guardando dal Vincula... l'arena, il pantheon ed il palazzo dell'arconte. Poi, dopo aver confermato da quella nuova e vantaggiosa posizione la disposizione di tutto ciò che avevo già visto dal basso, e dopo che fui certo di aver compreso la relazione spaziale esistente fra il luogo in cui mi trovavo ora e le mie precedenti cognizioni circa la disposizione della città, cominciai ad esplorare le strade minori, sbirciando i sentierini contorti che salivano lungo i pendii delle colline più basse e sondando gli stretti vicoli che spesso sembravano semplici strisce di oscurità fra un edificio e l'altro.
Nell'esaminare quei vicoli, il mio sguardo tornò infine a posarsi nuovamente sulle rive del fiume, e presi quindi ad osservare i moli ed i magazzini, e perfino le piramidi di botti, casse e balle che attendevano di essere caricate su qualche vascello. Ora l'acqua non era più schiumosa, salvo che nei tratti in cui il suo corso era ostruito dai moli. Il suo colore era quasi indaco, e, come l'indaco visto la sera di un giorno nevoso, sembrava scivolare silenziosa, sinuosa e fresca; ma la velocità dei caicchi e delle scialuppe cariche denotava l'effettiva turbolenza che si celava sotto quella superficie, poiché le imbarcazioni più grandi facevano dondolare come spadaccini i lunghi bompressi e straorzavano come granchi, in diagonale, quando i remi lottavano contro la vorticosa corrente.
Quando ebbi esaurito tutto ciò che si trovava più lontano, a valle, mi sporsi dal parapetto per osservare la parte di riva più vicina, ed una banchina che si trovava a meno di cento passi dal cancello posteriore; abbassando lo sguardo sui facchini che si affaticavano a liberare del suo carico un piccolo battello fluviale, distinsi, immota vicino ad essi, una minuscola figura dai capelli lucenti. Inizialmente, pensai che fosse una bambina, perché sembrava tanto piccola in confronto ai massicci lavoratori nudi fino alla cintola, ma poi compresi che si trattava di Dorcas, seduta sul limitare dell'acqua, con il volto fra le mani.
III
FUORI DALLO JACAL
Quando raggiunsi Dorcas, non mi riuscì di farla parlare. Non era semplicemente irritata nei miei confronti, come pensai all'inizio: il silenzio era sceso su di lei come una malattia, senza danneggiare le labbra o la lingua, ma togliendole la capacità e forse anche il desiderio di usarle, così come certe infezioni distruggono il nostro desiderio di godere e perfino la capacità di comprendere la gioia altrui. Se non la obbligavo a guardarmi, sollevandole il volto verso il mio, Dorcas non guardava nulla, e fissava il terreno fra i suoi piedi, credo senza neppure vederlo, oppure si copriva il volto con entrambe le mani come stava facendo quando l'avevo trovata.
Volevo parlarle, convinto com'ero, allora, che avrei potuto dirle qualcosa, anche se non sapevo esattamente cosa, che l'avrebbe fatta tornare normale, ma non potevo farlo là sul molo, con i facchini che ci fissavano, e per qualche tempo non riuscii a trovare un luogo adatto dove condurla. In una piccola strada vicina, che risaliva il pendio ad est del fiume, vidi l'insegna di una locanda. C'erano alcuni clienti che mangiavano nella piccola stanza comune, ma, pagando con qualche aes riuscii ad affittare una camera al piano di sopra, un ambiente arredato con un letto che occupava quasi tutto lo spazio e con il soffitto talmente basso ad un'estremità da impedirmi di stare diritto. Naturalmente, la padrona pensò che stessimo prendendo in affitto la camera per un convegno amoroso, cosa abbastanza normale, viste le circostanze, ma, a causa dell'espressione disperata di Dorcas, dedusse che io dovevo avere qualche potere su di lei o che dovevo averla comprata da un lenone, per cui, nell'andarsene, rivolse alla ragazza uno sguardo ed un sorriso colmi di simpatia (che credo lei non notò affatto) ed a me un'occhiata carica di rimprovero.
Chiusi e sprangai la porta e feci distendere Dorcas sul letto, quindi sedetti accanto a lei e cercai di coinvolgerla in una conversazione, chiedendole cosa ci fosse che non andava e che cosa potevo fare per porre rimedio a ciò che la turbava, qualsiasi cosa fosse, e così via. Quando mi accorsi che quella tattica era inefficace, presi a parlare di me stesso, supponendo che fosse solo l'orrore da lei provato nel vedere le condizioni di vita nel Vincula ad indurla a troncare ogni comunicazione verbale con me.
— Noi siamo disprezzati da tutti — dissi, — e non c'è motivo per cui tu non debba a tua volta disprezzarmi. La cosa sorprendente non è che tu sia giunta adesso ad odiarmi, ma che tu abbia potuto lasciar passare tutto questo tempo prima di cominciare a pensarla come gli altri. Ma, poiché ti amo, intendo cercare di difendere la posizione della nostra corporazione, e quindi anche la mia, nella speranza che dopo tu non te la prenda più così tanto per aver amato un torturatore, anche se non mi ami più.
«Noi non siamo crudeli, non proviamo gioia in quello che facciamo, salvo che nel farlo bene, il che significa farlo rapidamente e senza nulla di più o di meno di quanto richieda la legge. Obbediamo ai giudici, i quali occupano la loro carica perché il popolo glielo consente. Ci sono persone che dicono che non dovremmo fare nulla di ciò che facciamo e che nessuno dovrebbe fare queste cose. Dicono che una punizione inflitta a sangue freddo è un crimine più grande di quelli commessi dai nostri clienti, quali essi siano.
«Può darsi che in questo ci sia giustizia, ma è una giustizia che distruggerebbe l'intera Repubblica. Nessuno potrebbe sentirsi al sicuro, e nessuno potrebbe effettivamente essere al sicuro, ed alla fine la gente insorgerebbe... dapprima contro i ladri e gli assassini, ma poi contro chiunque offendesse l'idea popolare di proprietà, ed infine semplicemente contro chi fosse ritenuto uno straniero o un fuoricasta. Allora si tornerebbe agli antichi orrori delle lapidazioni e dei roghi, in cui ciascun uomo cercherebbe di mostrarsi ancor più feroce e fanatico dei suoi vicini, per timore di poter un domani essere accusato di aver nutrito un po' di pietà per il poveretto ucciso in quel giorno.
«Ci sono poi persone che dicono che certi clienti meritano le punizioni più severe, mentre altri non meritano di essere puniti, e che quindi noi ci dovremmo rifiutare di operare le nostre arti su questi ultimi. È senz'altro vero che ci sono alcuni che sono più colpevoli di altri, e può perfino essere vero che alcuni di quelli che ci vengono consegnati non abbiano commesso alcuna colpa, neppure quella di cui sono accusati.
«Ma coloro che sostengono queste tesi non fanno altro che ergere se stessi a giudici, al di sopra dei giudici nominati dall'Autarca, sebbene dotati di una minore esperienza in campo legislativo e privi dell'autorità necessaria per convocare testimoni. Essi ci chiedono di disobbedire ai veri giudici e di prestare loro ascolto, ma non possono dimostrare di essere più meritevoli della nostra obbedienza.
«Ci sono altri che sostengono che i nostri clienti non dovrebbero essere torturati o giustiziati, ma essere invece costretti a lavorare per la Repubblica, scavando canali, costruendo torri di guardia e così via. Ma, se si considera il costo delle guardie e delle catene, è meglio allora assumere onesti lavoratori, che altrimenti non troverebbero di che sfamarsi. Perché dovrebbero questi leali operai morire di fame affinché gli assassini non muoiano ed i ladri non debbano soffrire? Per di più, dato che quei ladri ed assassini non avrebbero alcun sentimento di lealtà verso la legge né alcuna speranza di essere ricompensati, non lavorerebbero che sotto la minaccia della frusta, e che altro è la frusta, se non una forma di tortura cui si dà un nuovo nome?
«Ci sono altri ancora per i quali tutti coloro che sono stati giudicati colpevoli, dovrebbero essere segregati per parecchi anni, in modo comodo e privo di sofferenza... spesso per tutta la durata della loro vita. Ma la comodità e la mancanza di sofferenza fanno vivere a lungo, ed ogni oricalco utilizzato per il loro mantenimento sarebbe così sottratto ad un migliore utilizzo. So poco della guerra, ma ne so abbastanza per comprendere quanto denaro sia necessario per le armi ed i soldati. Adesso i combattimenti si svolgono al nord, fra le montagne, cosicché noi combattiamo come se fossimo al riparo di cento muri. Ma che accadrebbe se gli scontri dovessero estendersi alle pianure? Sarebbe possibile bloccare gli Asciani là dove c'è tanto spazio di manovra? E come si farebbe a nutrire la gente di Nessus, se le mandrie dovessero cadere in mano al nemico?
«E se i colpevoli non devono essere rinchiusi in posti comodi né torturati, che altro rimane? Se devono essere uccisi, ed uccisi tutti allo stesso modo, allora la povera donna indotta al furto verrà posta sullo stesso piano di una madre che abbia avvelenato suo figlio, come aveva fatto Morwenna di Saltus. Vorresti una cosa simile? In tempo di pace, molti di costoro potrebbero essere banditi, ma ora metterli al bando significherebbe soltanto consegnare agli Asciani un contingente di spie da addestrare, rifornire di mezzi e reinfiltrare fra noi. Presto non ci si potrebbe più fidare di nessuno, neppure di chi parla la tua stessa lingua. Vorresti una cosa del genere?
Dorcas giaceva sul letto, immersa in un tale silenzio che per un momento pensai che si fosse addormentata, ma i suoi occhi, quegli occhi enormi di un azzurro perfetto, erano spalancati, e, quando mi chinai su di lei per guardarla, essi si mossero, e, per un momento, parvero fissarmi, come avrebbero potuto fissare i cerchi concentrici di una polla d'acqua.
— D'accordo, siamo dei demoni — aggiunsi, — se vuoi metterla così, ma siamo necessari. Perfino i poteri del Cielo hanno avuto bisogno di ricorrere ai servigi dei demoni.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, anche se non riuscii a comprendere se stava piangendo perché sapeva di avermi ferito o perché si era accorta che ero ancora presente. Nella speranza di ridestare il suo antico affetto per me, cominciai a parlare del periodo in cui eravamo ancora in viaggio per Thrax; le rammentai di come ci fossimo ritrovati nella radura dopo essere fuggiti dai giardini della Casa Assoluta, e di come avessimo conversato in quei grandi giardini prima della rappresentazione della commedia del Dr. Talos, passeggiando nel frutteto fiorito per poi sedere su una vecchia panchina vicino ad una fontana rotta, e le ricordai tutto ciò che mi aveva detto allora e tutto ciò che le avevo detto io.
Mi parve che quei discorsi la rendessero un po' meno triste, fino a quando non menzionai la fontana, le cui acque uscivano dal bacino rotto e formavano un piccolo corso d'acqua che qualche giardiniere aveva indirizzato fra gli alberi perché li rinfrescasse e terminasse poi il suo tragitto penetrando nel terriccio. Ma alla fine un'oscurità che non aveva nulla a che vedere con la luce della stanza, scese e rimase sul volto di Dorcas, facendomi pensare ad una di quelle strane cose che avevano inseguito Jonas e me attraverso i cedri. A quel punto, Dorcas non mi volle più guardare, e, dopo qualche tempo, si addormentò davvero.
Mi alzai il più silenziosamente possibile, aprii la porta e scesi le scale storte. La padrona stava ancora lavorando nella sala comune, ma i clienti che vi avevo visto se n'erano andati. Le spiegai che la donna che avevo portato là era malata, pagai l'affitto per parecchi giorni, promettendo di tornare in seguito e di provvedere ad eventuali ulteriori pagamenti; le chiesi anche di dare di tanto in tanto un'occhiata a Dorcas e di portarle da mangiare se si fosse sentita abbastanza bene da volere un po' di cibo.
— Ah, sarà una benedizione per noi avere qualcuno che dorma in quella stanza — disse la padrona, — ma, se la tua innamorata è malata, ti sembra che il Nido dell'Anatra sia il luogo più adatto a lei? Non la puoi portare a casa?
— Temo che vivere nella mia casa sia ciò che l'ha fatta ammalare. Per lo meno, non voglio correre il rischio di farla peggiorare riportandovela.
— Povera cara! — La padrona scosse il capo. — Ed è così graziosa, e sembra ancora una bambina. Quanti anni ha?
Le dissi che non lo sapevo.
— Bene, le farò una visitina e le darò un po' di zuppa, quando sarà in grado di mangiarla. — Mi fissò, come per dire che quel momento sarebbe giunto piuttosto presto, una volta che me ne fossi andato. — Ma voglio che tu sappia che non la terrò prigioniera per tuo conto: se se ne vorrà andare, sarà libera di farlo.
Quando uscii dalla piccola locanda, desideravo far ritorno al Vincula per la strada più breve, ma commisi l'errore di credere che, dal momento che la stretta strada in cui sorgeva il Nido dell'Anatra puntava quasi direttamente a sud, avrei fatto prima a continuare lungo essa e ad attraversare l'Acis più in basso invece di ripercorrere la via che io e Dorcas avevamo seguito e di tornare ai piedi della porta posteriore del Castello di Acies.
La stretta strada mi tradì, come avrei dovuto aspettarmi se avessi avuto una maggiore familiarità con la topografia di Thrax. Infatti, tutte quelle stradine contorte che si snodano su per i pendii, per quanto s'incrocino a vicenda, per lo più si stendono dall'alto in basso, per cui, per passare da un edificio aggrappato alla collina all'altro (a meno che non siano molto vicini oppure uno sull'altro), è necessario scendere fino alla fascia centrale lungo il fiume e poi risalire. Fu così che, non molto tempo dopo, mi ritrovai, sul pendio orientale, alla stessa altezza del Vincula, che però sorgeva sul pendio occidentale e quindi con minori prospettive, per me, di arrivarci di quante ne avessi avuto quando avevo lasciato la locanda.
Per essere sinceri, quella scoperta non fu del tutto spiacevole. Al Vincula mi aspettava una grande mole di lavoro, e non avevo alcuna voglia di farlo, avendo la mente piena di pensieri su Dorcas. L'usare le gambe mi faceva sentire meglio ed attenuava il mio senso di frustrazione, per cui decisi di seguire la stradina fino in cima, se si fosse reso necessario, osservare da lassù il Vincula ed il Castello di Acies e poi mostrare il mio distintivo alle guardie delle fortificazioni e camminare lungo di esse fino al Capulus, in modo da attraversare il fiume per la via più breve.
Ma, dopo aver faticato strenuamente per mezzo turno di guardia, scoprii che non potevo procedere oltre: la strada finiva davanti ad un precipizio profondo tre o quattro catene, e forse era finita anche prima, dato che l'ultimo tratto sembrava un sentiero privato che conduceva ad un miserabile jacal di fango e stecchi, davanti a cui mi trovavo ora.
Dopo essermi accertato che non c'era modo di aggirare il precipizio né di arrivare in cima dal punto in cui mi trovavo, stavo per girarmi, disgustato, quando un bambino scivolò fuori dallo jacal, e, avvicinatosi a me in modo ardito e timoroso ad un tempo, mi fissò solo con l'occhio destro, protendendo la mano sudicia nel gesto universale di tutti i mendicanti. Se mi fossi sentito meglio, forse avrei riso di quella creatura, timida ed importuna com'era, ma, così come mi sentivo, lasciai cadere alcuni aes nella manina sporca.
— Mia sorella è malata, signore — azzardò, incoraggiato, il bambino. — Molto malata, sieur. — Dal tono di voce dedussi che era un ragazzo, e, siccome nel parlare aveva girato in parte la testa verso di me, vidi che aveva l'occhio sinistro gonfio e chiuso per una qualche infezione, e che da esso colavano gocce di pus che si asciugavano poi sulla guancia. — Molto, molto malata.
— Capisco — dissi.
— Oh, no, sieur, non puoi, non da qui! Ma, se vuoi, puoi guardare attraverso la porta... non le darai noia.
In quel momento, un uomo che portava un grembiule di cuoio dei muratori, e che stava risalendo faticosamente il sentiero nella nostra direzione, chiamò:
— Cosa c'è? Jader? Che cosa vuole?
Come era da prevedere, quella domanda ebbe il solo effetto di spaventare e zittire il ragazzo.
— Gli stavo chiedendo la strada migliore per arrivare alla città bassa — risposi.
Il muratore non disse nulla, ma si arrestò a circa quattro passi da noi, ed incrociò le braccia, che mi parvero più dure delle pietre che spezzavano. L'uomo sembrava irato e diffidente, anche se non riuscivo a comprenderne il motivo. Forse il mio accento gli aveva fatto capire che venivo dal sud, o forse era il modo in cui ero vestito, che, pur non essendo sfarzoso o bizzarro, lasciava comunque intuire che appartenevo ad una classe sociale più elevata della sua.
— Ho invaso una proprietà privata? — chiesi. — È la tua proprietà?
Non ebbi risposta: quali che fossero i suoi sentimenti nei miei confronti, era comunque chiaro che quell'uomo riteneva che non potesse esistere comunicazione fra noi. Quando gli parlavo, era come se mi rivolgessi ad una bestia, e neppure ad una bestia intelligente, ma solo come un conducente quando incita i suoi buoi; mentre, dal suo punto di vista, la mia voce non era altro che il suono gutturale di una bestia che cerchi di parlare ad un uomo.
Ho notato che in libri come il mio, non sembra verificarsi mai questo tipo di posizione di stallo; gli autori sono tanto ansiosi di far procedere le loro storie (per quanto esse possano essere pesanti come carretti di legno dalle ruote stridenti che non stanno mai fermi, per quanto visitino soltanto villaggi polverosi dove il fascino della campagna è ormai andato perduto e dove non si potranno mai trovare i piaceri della città) che non inseriscono mai simili incomprensioni né rifiuti di trattative. L'assassino che tiene la sua daga puntata al collo della vittima è sempre pronto a discutere l'intera vicenda per tutto il tempo che piaccia alla vittima oppure all'autore. Similmente, la coppia avvinta in un abbraccio passionale si dimostra altrettanto, se non di più, ansiosa di ritardare prima di giungere al momento culminante.
Nella vita, non è così. Fissai il muratore, e lui fissò me, ed io, pur sentendo che avrei potuto ucciderlo, non potei però averne la certezza, sia perché quell'uomo appariva insolitamente forte, sia perché non potevo sapere se portava qualche arma nascosta o se aveva amici nelle miserabili capanne circostanti. Ebbi la sensazione che l'uomo stesse per sputare sul sentiero fra noi, e, se l'avesse fatto, gli avrei gettato sulla testa il mio jelab e lo avrei immobilizzato. Ma non lo fece, e, dopo che ci fummo fissati in silenzio per parecchi istanti, il ragazzo, che forse non aveva idea di cosa stava accadendo fra noi due, disse ancora:
— Puoi guardare attraverso la porta, sieur, non darai noia a mia sorella. — E, nell'ansia di dimostrarmi che non aveva mentito, si azzardò perfino a darmi un leggero strattone alla manica, senza rendersi conto del fatto che il suo aspetto era già sufficiente a giustificare il suo mendicare.
— Ti credo — risposi, ma poi compresi che dirgli che gli credevo equivaleva ad insultarlo, nel momento in cui avessi dimostrato di non nutrire fede sufficiente nelle sue parole, tanto da sentirmi indotto a mettere alla prova le sue affermazioni. Mi chinai a sbirciare all'interno, anche se inizialmente non riuscii a scorgere nulla, perché il mio sguardo era passato dal bagliore della luce solare alla penombra dell'interno dello jacal.
La luce del sole si trovava quasi a perpendicolo alle mie spalle, e, nel sentirne la pressione sulla nuca, mi resi conto che il muratore avrebbe potuto attaccarmi impunemente, ora che gli voltavo le spalle.
La stanza era minuscola, ma non sporca. Un po' di paglia era stata accumulata contro la parete più lontana dalla porta, e la ragazza vi era distesa sopra. La sua malattia era giunta a quello stadio ultimo in cui ci si sente indotti a provare la massima compassione per un malato che è invece divenuto una fonte di orrore a vedersi. Il volto era uguale a quello della Morte, e su di esso era steso un velo di pelle tanto sottile e trasparente da sembrare quella di un tamburo. Le labbra non riuscivano più a coprire i denti neppure nel sonno, e, sotto la falce della febbre, i capelli erano caduti e ne rimanevano solo pochi ciuffi. Puntai le mani contro la parete di fango e sterpi accanto alla porta e mi raddrizzai.
— Vedi che è molto malata, sieur. Mia sorella. — Il ragazzo tese ancora la mano, ed io la vidi... la vedo ancora oggi davanti a me... ma la mia mente non la registrò immediatamente. Potevo pensare soltanto all'Artiglio, e mi sembrava che esso stesse facendo pressione contro il mio diaframma, non tanto come un peso inanimato, ma piuttosto come le nocche di un pugno invisibile. Mi rammentai dell'ulano che era parso morto fino a che gli avevo sfiorato le labbra con l'Artiglio, e che ora mi sembrava appartenesse ad un remoto passato. Rammentai l'uomo-scimmia, con il moncherino del braccio, e come le scottature di Jonas fossero svanite quando vi avevo passato sopra l'Artiglio, che però non avevo più usato, e neppure pensato di usare, da quando non mi era servito a salvare Jolenta.
Tenevo la pietra celata da tanto tempo, che avevo paura di fare un nuovo tentativo con essa, ma forse l'avrei applicata sulla fronte della ragazza morente se non fosse stato per il fatto che suo fratello stava guardando; ed avrei toccato con la pietra l'occhio malato del ragazzo se non fosse stato per la presenza del cupo muratore. Così come stavano le cose, mi sforzai solamente di respirare, vincendo la pressione che mi schiacciava il petto, e non feci nulla, allontanandomi verso il fondovalle senza neppure badare in quale direzione andavo. Sentii la saliva schizzare dalla bocca del muratore e colpire sonoramente la pietra del sentiero alle mie spalle, ma non compresi cosa avesse provocato quel suono fino a che non ebbi quasi raggiunto di nuovo il Vincula e non fui tornato in me.
IV
NELLA BERTESCA DEL VINCULA
— Hai visite, Littore — mi salutò la sentinella, e, quando io feci solo un cenno di assenso, aggiunse: — Sarebbe meglio che prima ti cambiassi, Littore. — Non ebbi bisogno di chiedere chi fosse il visitatore, perché solo la presenza dell'arconte poteva spingere la sentinella ad usare quel tono.
Non mi fu difficile raggiungere il mio appartamento senza passare dall'ufficio dove mi occupavo degli affari del Vincula e tenevo i conti relativi. Trascorsi il tempo necessario a togliermi lo jelab preso a prestito e ad indossare il mio manto di fuliggine, riflettendo sul perché l'arconte, che prima d'allora non era mai venuto da me, e che, se era per questo, avevo raramente incontrato al di fuori della sua corte, avesse sentito la necessità di fare una visita al Vincula, apparentemente senza scorta.
Quelle riflessioni mi erano gradite, perché servivano a tenere a distanza certi altri pensieri. Nella nostra stanza c'era un grande vetro argentato, che, come specchio, era molto più efficace delie piccole lastre di metallo lucido cui ero abituato; quando mi accostai ad esso per esaminare il mio aspetto, notai per la prima volta che Dorcas aveva scribacchiato sulla sua superficie, servendosi della schiuma di sapone, quattro versi di una canzone che mi aveva cantato un tempo:
Corni di Urth, levate al cielo le vostre note,
Verdi e buone, verdi e buone.
Cantate al mio passaggio; trovato ho una più dolce radura.
Innalzatemi, oh, innalzatemi fino alla caduta verzura!
Nello studio c'erano parecchie sedie comode, e mi ero aspettato di trovare l'arconte seduto su una di esse (anche se mi era passato per la mente il pensiero che potesse aver approfittato dell'occasione per dare una scorsa alle mie carte, cosa che aveva pieno diritto di fare, se solo avesse voluto). Invece, era in piedi vicino al davanzale, intento a fissare la sua città più o meno come io stesso l'avevo osservata all'inizio del pomeriggio dai bastioni del Castello di Acies. Aveva le mani serrate dietro la schiena, e notai che esse si muovevano come possedute da vita propria, generata dai pensieri dell'arconte. Passò qualche tempo prima che si voltasse e mi vedesse.
— Sei qui, Maestro Torturatore. Non ti ho sentito entrare.
— Sono solo un artigiano, Arconte.
Questi sorrise e sedette sul davanzale, la schiena rivolta al precipizio. Aveva un volto ordinario, con un naso a becco e gli occhi grandi e bordati di carne scura, ma non era un volto mascolino: sembrava piuttosto quello di una donna brutta.
— Anche ora che ti ho reso responsabile di questo luogo, rimani sempre un semplice artigiano?
— Posso essere elevato solo dai maestri della nostra corporazione, Arconte.
— Ma tu sei il migliore dei loro artigiani, a giudicare dalla lettera che mi hai portato, dal fatto che ti abbiano scelto per venire qui e dal lavoro che hai svolto da quando sei arrivato. Comunque, quaggiù nessuno saprebbe che non ne hai il diritto, se tu scegliessi di darti un po' di arie. Quanti maestri ci sono?
— Lo saprei io, Arconte. Ce ne sono solo due, a meno che qualcuno sia stato elevato dopo la mia partenza.
— Scriverò loro e chiederò di elevarti in absentia.
— Ti ringrazio, Arconte.
— Non c'è di che. — L'arconte si volse a guardare fuori dalla finestra come se quella situazione lo imbarazzasse. — Suppongo che dovresti ricevere conferma della cosa entro un mese.
— Non mi eleveranno, Arconte, ma il Maestro Palaemon sarà felice di apprendere che tu hai un'opinione tanto buona di me.
— Non c'è sicuramente bisogno di essere tanto formali. — L'arconte tornò a voltarsi per guardarmi. — Il mio nome è Abdiesus, e non c'è motivo per cui tu non lo possa usare quando siamo soli. Tu sei Severian, vero?
Annuii, e l'arconte distolse nuovamente lo sguardo.
— È una finestra molto bassa: la stavo esaminando proprio prima che tu entrassi, ed ho notato che il muro mi arriva a stento alle ginocchia. Temo che qualcuno potrebbe facilmente cadere giù di qui.
— Solo una persona alta come te, Abdiesus.
— In passato, non si eseguivano talvolta le sentenze gettando la vittima da un'alta finestra o giù da un precipizio?
— Sì, entrambi questi metodi sono stati impiegati.
— Non da te, suppongo. — Si volse ancora a fissarmi.
— Non sono più stati praticati a memoria d'uomo vivente, per quel che ne so, Abdiesus. Ho eseguito decapitazioni, sia con il ceppo che con la sedia, ma questo è tutto.
— Ma non avresti da obiettare ad utilizzare altri metodi? Se sei stato istruito nel loro impiego.
— Io sono qui per eseguire le sentenze dell'arconte.
— Ci sono occasioni, Severian, in cui le esecuzioni pubbliche servono al bene pubblico, ma ce ne sono altre, in cui tali esecuzioni farebbero solo del male, e fomenterebbero disordini.
— Questo è chiaro, Abdiesus. — Come talvolta si possono vedere sul volto di un ragazzo le preoccupazioni dell'uomo che questi sarà un giorno, adesso potevo leggere sul volto dell'arconte quel futuro senso di colpa che era già disceso sui suoi lineamenti (forse senza che egli se ne accorgesse).
— Ci saranno alcuni ospiti a palazzo, stanotte, Severian, e spero che ci sarai anche tu.
— Fra le altre ripartizioni dell'amministrazione — risposi inchinandomi, — esiste anche da lungo tempo l'usanza di escludere una persona, la mia, dalla compagnia degli altri.
— E tu senti che questo è ingiusto, com'è naturale. Questa notte, se ti fa piacere vederla in questo modo, faremo ammenda.
— Noi della corporazione non ci siamo mai lamentati di subire ingiustizie, e ci siamo invece sempre gloriati del nostro isolamento. Stanotte, tuttavia, gli altri potrebbero sentirsi in diritto di protestare con te.
— Questo non mi preoccupa. — Un sorriso apparve sulle sue labbra. — Ecco, questo ti permetterà di entrare. — Tese la mano verso di me, tenendo delicatamente, come se temesse che potesse volargli via, uno di quei dischetti di carta rigida, non più grandi di un criso e scritti con elaborati caratteri in oro di cui avevo spesso sentito parlare da Thecla (che si agitò nella mia mente nel momento in cui lo presi) ma che non avevo mai visto in precedenza.
— Grazie, Arconte. Stanotte, hai detto? Cercherò di trovare un abito adeguato alla circostanza.
— Vieni vestito così come sei. Sarà una festa in maschera... il tuo abito sarà il tuo costume. — Si alzò e si stiracchiò, con l'aria, pensai, di una persona che abbia quasi ultimato un lungo e spiacevole incarico. — Un momento fa, abbiamo parlato di alcuni modi meno elaborati di svolgere la tua attività. Sarebbe bene che stanotte tu portassi con te gli strumenti necessari, quali che siano.
Allora compresi. Non avrei avuto bisogno di altro se non delle mie mani, e lo dissi; quindi, sentendo che avevo già trascurato fin troppo i miei doveri di padrone di casa, lo invitai ad accettare i rinfreschi che potevo offrirgli.
— No — rispose. — Se tu sapessi quante cose sono costretto a bere ed a mangiare per obbedire ai canoni della cortesia, capiresti quanto mi sia gradita la compagnia di una persona le cui offerte posso declinare. La tua confraternita ha mai pensato di usare il cibo, e non il digiuno, come forma di tortura?
— La chiamiamo planterazione, Arconte.
— Dovrai parlarmene, una volta o l'altra: vedo che la tua corporazione precorre di molto la mia immaginazione, ed indubbiamente già da una dozzina di secoli. Dopo la caccia, la vostra deve essere la scienza più antica che ci sia. Ma non posso fermarmi oltre. Ci vediamo questa sera?
— È già quasi sera, Arconte.
— Alla fine del prossimo turno di guardia, allora.
Uscì, e soltanto dopo che la porta si fu richiusa alle sue spalle percepii il tenue odore di muschio che emanava dalla sua tunica.
Osservai il cerchietto di carta che avevo in mano, rivoltandolo fra le dita. Dipinte sul dietro, c'erano una serie di maschere, ed io riconobbi uno degli orrori... un volto che era poco più di un'immensa bocca orlata di denti, che avevo visto nel giardino dell'Autarca quando i cacogeni si erano tolte le maschere, ed anche il volto di uno degli uomini scimmia delle miniere abbandonate, vicino a Saltus.
Ero stanco per la lunga camminata e per il lavoro (quasi un'intera giornata, poiché mi ero alzato presto) che l'aveva preceduta. Così, prima di tornare ad uscire, mi spogliai, mi lavai, e mangiai un po' di frutta e di carne fredda, sorseggiando un bicchiere dello speziato tè settentrionale... Quando un problema mi turba profondamente, rimane nella mia mente anche se non me ne accorgo, e così accadde allora: per quanto non ne fossi consapevole, il pensiero di Dorcas stesa nella sua stretta stanza nella locanda ed il ricordo della ragazza morente sul suo letto di paglia mi chiudevano gli occhi e mi tappavano gli orecchi. Fu per questo, credo, che non sentii il mio sergente fino a che non ebbe fatto il suo ingresso nella stanza, e che mi accorsi solo allora che stavo prendendo e spezzando fra le mani i rametti per attizzare il fuoco contenuti in una cassetta accanto al camino. Il sergente mi chiese se dovevo uscire ancora, e, dato che lui era, in mia assenza, responsabile del Vincula, risposi affermativamente, ed aggiunsi che non sapevo quando sarei tornato; quindi lo ringraziai per avermi prestato il suo jelab, e gli spiegai che non mi sarebbe più servito.
— Puoi prenderlo quando vuoi, Littore, ma non era di questo che mi preoccupavo. Volevo suggerirti di portare con te un paio dei nostri clavigeri, se intendi scendere in città.
— Ti ringrazio — replicai, — ma la città è ben pattugliata e non correrò alcun pericolo.
— È una questione che investe il prestigio del Vincula, Littore. — Il sergente si schiarì la gola. — In qualità di comandante, devi avere una scorta.
Vedevo chiaramente che stava mentendo, ma capivo anche che lo stava facendo per quello che considerava il mio bene, quindi risposi:
— Ci penserò, supponendo che tu abbia due uomini presentabili di cui puoi fare a meno. — S'illuminò subito in volto, ma io aggiunsi: — Tuttavia, non voglio che siano armati: sto andando a palazzo, e sarebbe un'offesa per il nostro signore l'arconte se vi giungessi con una scorta armata.
A quelle parole, il sergente prese a balbettare qualcosa, ed io mi rivoltai contro di lui come se fossi infuriato, gettando via la legna rotta che si abbatté fragorosamente al suolo.
— Sputa fuori! Credi che io sia minacciato? Che cosa c'è?
— Nulla, Littore. Nulla che ti riguardi personalmente. È solo che...
— Solo cosa? — Sapendo ormai che avrebbe parlato, mi avvicinai alla credenza e versai due tazze di rosolio.
— Ci sono stati parecchi omicidi in città, Littore. Tre la notte scorsa e due quella precedente. Grazie, Littore, alla tua salute.
— Alla tua. Ma gli assassini non sono una novità, vero? Gli eclettici non fanno altro che pugnalarsi a vicenda.
— Questi uomini sono stati arsi vivi, Littore. In realtà non so molto in merito, ...sembra che nessuno sappia qualcosa. Forse tu stesso ne sai di più. — Il volto del sergente era altrettanto privo d'espressione quanto un rozzo pezzo di legno intagliato, ma notai che, nel parlare, aveva lanciato una rapida occhiata al focolare spento, e compresi che aveva attribuito il fatto che stessi spezzando la legna (quegli stecchi che erano stati così duri e secchi nelle mie mani ma che non mi ero accorto di stringere se non parecchio tempo dopo che egli era entrato, così come forse Abdiesus non si era reso conto di contemplare la propria morte se non molto dopo che io lo stavo osservando) a qualcosa, ad un oscuro segreto, ad un ordine impartitomi dall'arconte, quando in realtà io stavo pensando solo a Dorcas ed alla sua disperazione, ed alla mendicante malata che confondevo con lei. — Ho due uomini in gamba che aspettano fuori, Littore — aggiunse. — Sono pronti a muoversi quando lo vorrai tu e ti aspetteranno fino a che sarai pronto a tornare indietro.
Gli dissi che così andava benissimo, e lui si allontanò immediatamente, in modo che io non potessi intuire quello che sapeva, o ciò che credeva di sapere, e cioè più di quanto mi aveva riferito. Ma le sue spalle rigide ed il collo teso, i passi rapidi con cui raggiunse la porta, mi fornirono più informazioni di quante avessero voluto darmene i suoi occhi impassibili.
La mia scorta era costituita da due uomini massicci, scelti per la loro forza. Brandendo le loro grosse clave di ferro, mi accompagnarono mentre io, con Terminus Est appoggiata alla spalla, mi avviavo lungo le strade tortuose, disponendosi ai miei lati quando la strada era abbastanza larga, oppure precedendomi e seguendomi. Giunto all'Acis, li congedai, ed aumentai la loro ansia di lasciarmi dicendo che potevano trascorrere il resto della serata come preferivano. Noleggiai quindi un piccolo caicco (con una volta gaiamente dipinta che non mi serviva a nulla, ora che era trascorso anche l'ultimo turno di guardia della giornata) per risalire il fiume fino al palazzo.
Quella era la prima volta che solcavo le acque dell'Acis, e mi sedetti a poppa, fra il proprietario-timoniere ed i suoi quattro rematori, con le fredde e limpide acque che mi scorrevano tanto vicine che vi avrei potuto immergere entrambe le mani, se solo avessi voluto. Mi parve impossibile che quel fragile guscio di legno, che dalla finestra della nostra bertesca non doveva apparire più grande di un insetto, potesse sperare di guadagnare anche solo una spanna su quella vorticosa corrente. Poi, il timoniere diede un comando, e partimmo, tenendoci vicini alla riva per sicurezza, ma procedendo con la velocità di una pietra lanciata, tanto rapidi e perfettamente armoniosi erano i colpi dei nostri otto remi e tanto snella e leggera era la nostra imbarcazione, viaggiando più nell'aria al disopra dell'acqua che nell'acqua stessa. Una lanterna pentagonale, con pannelli di vetro color ametista, era appesa a poppa, e, proprio nel momento in cui io, nella mia ignoranza, pensavo che stavamo per essere colpiti dalla corrente, rovesciati e trascinati in fondo al fiume e verso il Capulus, il timoniere abbandonò il timone e accese lo stoppino.
Naturalmente, lui aveva ragione, ed io torto. Nel momento in cui lo sportello della lanterna si richiudeva sulla fiammella gialla e la trasformava in un raggio violetto, un vortice ci prese, ci fece roteare su noi stessi, ci spinse a monte per un centinaio di passi e più, mentre i rematori ritiravano i remi, e ci lasciò in una baia in miniatura, quieta come la polla di un mulino e piena per metà di vivaci barche di piacere. Una fila di scalini, molto simili a quelli dai quali, da ragazzo, solevo tuffarmi nel Gyoll, per quanto fossero più puliti, usciva dalle profondità del fiume e saliva verso il chiarore delle torce e gli elaborati cancelli del palazzo.
Avevo visto spesso il palazzo dal Vincula, e quindi sapevo che non era una struttura sotterranea modellata sull'esempio della Casa Assoluta, come avrei potuto aspettarmi. Non era neppure una cupa fortezza come lo era stata la nostra Cittadella... a quanto pareva, l'arconte ed i suoi predecessori avevano ritenuto che i punti di forza rappresentati dal Castello di Acies e dal Capulus, collegati com'erano da mura e forti che si stendevano lungo le creste delle colline, garantissero una sufficiente sicurezza alla città. Qui nel palazzo, i terrapieni erano semplici strutture squadrate destinate soprattutto ad impedire la vista ai curiosi ed a bloccare eventuali ladri. Gli edifici dalle cupole dorate erano sparpagliati su un giardino che sembrava al contempo intimo e colorato, e, visti dalla mia finestra della bertesca, mi erano sembrati perle cadute dal loro filo e sparpagliatesi su un tappeto multicolore.
C'erano alcune sentinelle vicino alle porte di filigrana, soldati a piedi con corazza ed elmetto d'acciaio, con le lance fiammeggianti e lunghe spade da cavalleria, ma essi avevano l'aria di attori dilettanti o di comparse, uomini cordiali ma temprati, che godevano di quella breve pausa ai combattimenti ed al servizio di pattuglia. I due soldati cui mostrai il mio cerchietto di carta dipinto gli diedero a malapena un'occhiata prima di lasciarmi entrare.
V
CYRIACA
Fui uno dei primi ospiti ad arrivare. C'erano ancora in giro più servitori che ospiti, ed i primi erano tanto affaccendati da dar l'impressione di aver cominciato il loro lavoro solo da poco e di volerlo concludere rapidamente. I servitori accesero i candelabri muniti di lenti di cristallo e le corone di luce appese ai rami superiori degli alberi, portarono fuori vassoi colmi di cibi e di bevande, li disposero in giro, li spostarono, quindi tornarono a portarli in uno degli edifici a cupola... i tre atti eseguiti in genere da tre servitori diversi, ma talvolta da uno solo (indubbiamente perché gli altri erano occupati altrove).
Per qualche tempo, gironzolai per il giardino, ammirando i fiori nella luce crepuscolare che stava rapidamente svanendo, quindi, avendo intravisto alcune persone in costume fra i pilastri di un padiglione, mi avviai all'interno per raggiungerle.
Ho già descritto come si svolga una riunione di questo tipo nella Casa Assoluta. Qui, dove la società era interamente provinciale, si aveva piuttosto l'impressione di vedere dei bambini che giocassero a travestirsi con gli indumenti dei genitori. Vidi uomini e donne mascherati da autoctoni, con i volti dipinti di rosso e chiazzati di bianco, e vidi perfino un uomo che era vestito da autoctono e che lo era realmente, con un costume che non era né più né meno autentico degli altri, tanto che mi sentii indotto a ridere di lui fino a che mi resi conto del fatto che, sebbene forse fossimo i soli a saperlo, lui era in realtà vestito in modo molto più originale di tutti gli altri, in qualità di cittadino di Thrax con il suo costume tribale. Intorno a quegli autoctoni, veri ed immaginari, c'era una mezza dozzina di altre figure non meno assurde... ufficiali vestiti da donna e donne vestite da soldati, eclettici altrettanto fasulli quanto gli autoctoni, gimnosofisti, ablegati con i loro seguaci, eremiti, eidoloni, zoantropi, metà bestie e metà uomini, deodandi e remontados vestiti di stracci pittoreschi, con gli occhi dipinti in modo che avessero una sguardo selvaggio.
Mi sorpresi a pensare quanto sarebbe stato strano se il Nuovo Sole, la Stella del Giorno, fosse apparso ora, all'improvviso, come aveva fatto tanto tempo prima, quando era stato chiamato il Conciliatore, e fosse apparso qui perché questo era il luogo meno appropriato, ed egli aveva sempre preferito comparire nei luoghi più inaspettati, per osservare tutta questa gente con occhi più freschi di quanto avrebbero mai potuto esserlo i nostri. E quanto sarebbe stato strano se egli, apparendo in questo modo, avesse decretato per mezzo della sua teurgia che tutte quelle persone (che io non conoscevo e che non conoscevano me) dovessero rivestire per sempre i ruoli scelti per quella notte, gli autoctoni accoccolati per sempre vicino a fuochi fumosi, fra le montagne, i veri autoctoni costretti in eterno ad impersonare il cittadino alla festa in maschera, le donne inviate al galoppo contro i nemici della Repubblica con la spada in pugno, i soldati costretti a fare la calza vicino alle finestre che danno a nord, fissando le strade vuote, i deodandi a lamentare in terre selvagge le loro indicibili abominazioni, i remontados a bruciare le loro case ed a tenere lo sguardo fisso sulle montagne.
E solo io sarei rimasto immutato, come si dice che rimanga immutata da trasformazioni matematiche la velocità della luce.
Poi, mentre stavo sorridendo fra me sotto la maschera, mi parve che l'Artiglio, nel suo morbido sacchetto di pelle di daino, premesse contro il mio petto per rammentarmi che il Conciliatore non era stato qualcuno su cui si potesse scherzare, e che io portavo con me un frammento del suo potere. In quel momento, nei guardare dall'altra parte della sala, al disopra delle teste coperte di elmi e di piume o da capelli scompigliati, vidi una Pellegrina.
Attraversai la sala per raggiungerla il più in fretta possibile, spingendo da un lato quelli che non si spostavano per farmi passare (che erano ben pochi perché, sebbene nessuno ritenesse che il mio abito fosse autentico, la mia altezza li induceva a scambiarmi per un esultante, dato che nelle vicinanze non ce n'era nessuno vero con cui fare un confronto).
La Pellegrina non era né giovane né vecchia; sotto lo stretto domino, il suo volto sembrava un liscio ovale, rifinito e remoto come quello della madre superiora che mi aveva permesso di uscire indenne dalla cattedrale ospitata sotto la tenda, dopo che Agia ed io avevamo distrutto l'altare. La donna aveva in mano un bicchierino di vino con cui stava giocherellando, e, quando m'iginocchiai dinnanzi a lei, lo depose su un tavolo per potermi porgere le dita da baciare.
— Confessami ed assolvimi, Domnicella — la implorai. — Ho fatto un terribile torto a te ed alle tue sorelle.
— La Morte arreca danno a tutti noi — mi rispose.
— Ma io non sono la Morte. — A quel punto sollevai lo sguardo su di lei, e fui assalito dal primo dubbio.
— Non lo sei? — Al disopra del brusio della folla la sentii trattenere bruscamente il respiro.
— No, Domnicella. — Per quanto dubitassi già di lei, ebbi timore che fuggisse dinnanzi a me, e protesi la mano per afferrare la cintura che le pendeva dalla vita. — Domnicella, perdonami, ma sei davvero un'appartenente all'ordine?
Senza parlare, la donna scosse il capo, poi si accasciò al suolo.
Non era cosa rara che qualche cliente delle nostre segrete fingesse di svenire, ma la finzione veniva rapidamente individuata, perché chi finge di svenire chiude deliberatamente gli occhi e continua a tenerli chiusi. In uno svenimento reale, invece, la vittima, uomo o donna che sia, perde dapprima il controllo degli occhi, tanto che, per un istante, essi non guardano più nella stessa direzione e talvolta tendono addirittura ad arrovesciarsi all'indietro sotto le palpebre. Le palpebre, a loro volta, raramente si chiudono del tutto, dato che la loro chiusura non dipende quasi mai da un atto deliberato, ma piuttosto da un semplice rilassamento muscolare. Di solito, quindi, si riesce a vedere una porzione di orbita fra le palpebre, come nel caso della donna che si era appena accasciata a terra.
Parecchi uomini mi aiutarono a portarla su un'alcova, quindi ci furono un mucchio di commenti sciocchi sugli effetti del caldo e dell'eccitamento, nessuna delle quali cose era esistita al momento dello svenimento.
Per qualche tempo, mi fu impossibile allontanare i curiosi, poi, quando la cosa ebbe perso la sua novità, se ne andarono tanto in fretta che sarebbe ora stato per me altrettanto impossibile trattenerli se avessi voluto farlo. A quel punto, la donna vestita di scarlatto stava cominciando a muoversi; avevo appreso da un'altra donna, all'incirca della stessa età e mascherata da bambina, che quella era la moglie di un armigero la cui villa non distava molto da Thrax, ma che attualmente si trovava a Nessus per qualche affare. Tornai al tavolo e presi il bicchierino che la donna vi aveva appoggiato, avvicinandoglielo quindi alle labbra.
— No — mi disse debolmente. — Non lo voglio... è sangria, ed io la odio... L'avevo scelta solo perché il suo colore s'intona con quello del mio abito.
— Perché sei svenuta? Perché ho creduto che fossi realmente una sacerdotessa?
— No, perché ho intuito la tua identità — mi rispose, e rimanemmo in silenzio per qualche istante, lei semisdraiata sul divano dove l'avevamo distesa ed io seduto dinnanzi a lei.
Mi feci tornare in mente l'istante in cui mi ero inginocchiato ai suoi piedi, sfruttando la mia capacità, di cui ho già parlato, di ricostruire alla perfezione qualsiasi attimo della mia vita. Infine, mi sentii spinto a domandare:
— Come hai fatto a capirlo?
— Chiunque altro, se si fosse abbigliato in quel modo e gli fosse stato chiesto se era la Morte, avrebbe risposto affermativamente. .. perché avrebbe avuto coscienza di essere in maschera. Ero presente alla corte dell'arconte, una settimana fa, quando mio marito ha accusato di furto uno dei nostri peoni. Quel giorno, ti ho visto rimanere da un lato, le braccia conserte sull'impugnatura della tua spada, che hai anche ora con te, e così, quando hai detto quelle parole dopo avermi baciato le dita, ti ho riconosciuto ed ho pensato... Oh, non so cosa ho pensato! Suppongo di aver pensato che ti eri inginocchiato dinnanzi a me perché avevi intenzione di uccidermi. Quando ti ho visto nella corte, dal modo in cui stavi eretto, mi sei parso una persona che si comporterebbe cavalierescamente nei confronti della povera gente cui deve far saltare la testa, ed in particolare nei confronti delle donne.
— Mi sono inginocchiato dinnanzi a te solo perché sono ansioso di riuscire a localizzare le Pellegrine e perché il tuo costume, come il mio, non sembrava affatto un costume.
— Non lo è. Voglio dire, non ho il diritto di portarlo, ma non è semplicemente qualcosa che mi sono fatta confezionare dalle mie cameriere. È un vero abito d'investitura. — Fece una pausa. — Sai che non conosco neppure il tuo nome?
— Severian. Il tuo è Cyriaca... me lo ha detto una donna mentre ci stavamo prendendo cura di te. Posso chiederti come sei venuta in possesso di quell'abito, e se sai dove si trovino adesso le Pellegrine?
— Questo non rientra nei tuoi doveri, vero? — Per un momento mi fissò negli occhi, poi scosse il capo. — È una faccenda personale. Mi hanno allevata loro, ero una postulante, sai? Abbiamo viaggiato su e giù per il continente, ed ho appreso molte cose meravigliose nel campo della botanica semplicemente osservando i fiori e le piante che incontravamo. Qualche volta, quando ci ripenso, mi sembra che passassimo dalle palme ai pini in una settimana, anche se so che non può essere vero.
«Stavo per pronunciare i voti definitivi, e, l'anno prima dell'investitura, ti viene consegnato l'abito, in modo che tu lo possa provare e verificare che ti calzi bene, ed anche perché tu lo possa vedere fra i tuoi abiti comuni ogni volta che disfi i bagagli. È un po' come quando una ragazza guarda l'abito da sposa di sua madre, sapendo che è stato anche di sua nonna e che lei lo indosserà a sua volta, se si sposerà. Solo che io non ho mai indossato il mio abito per l'investitura, e, quando sono tornata a casa, dopo aver atteso per lungo tempo che passassimo in quelle vicinanze, perché altrimenti non avrei avuto nessuno che mi scortasse, l'ho portato con me.
«Non ci avevo più pensato per molto tempo, poi, quando ho ricevuto l'invito dell'arconte, ho deciso di tirarlo fuori e d'indossarlo stanotte. Sono orgogliosa della mia figura, ed abbiamo dovuto allargarlo solo un poco qui e là. Credo che mi si addica, e so di avere la faccia di una Pellegrina, anche se non ho i loro occhi. In realtà, non li ho mai avuti, anche se ero solita pensare che li avrei avuti anch'io quando avessi pronunciato i miei voti, o magari più tardi. La nostra direttrice delle postulanti aveva quello sguardo: poteva starsene seduta a cucire, e osservandola, tu avevi l'impressione che stesse vedendo l'estremità di Urth, dove vivono i prischii, guardando attraverso la camicia vecchia e lacera da rammendare, la parete della tenda ed ogni altra cosa. No, non so dove siano adesso le Pellegrine... e dubito che lo sappiano loro stesse, anche se forse la Madre lo sa.
— Devi avere qualche amica fra loro — obiettai. — Non hai mantenuto i contatti con qualche altra postulante?
— Nessuna di loro mi ha mai scritto. — Cyriaca scrollò le spalle. — Davvero, non lo so.
— Ti senti abbastanza bene per tornare alle danze? — La musica stava cominciando a penetrare nella nostra alcova.
La sua testa non si mosse, ma distinsi i suoi occhi, che avevano fino ad allora fissato il corridoio del tempo, mentre lei parlava delle Pellegrine, e li vidi guardarmi obliquamente.
— È ciò che tu desideri fare? — mi chiese.
— Credo di no. Non mi sento mai del tutto a mio agio fra la folla, a meno che si tratti di amici.
— Allora hai qualche amico? — Cyriaca sembrava genuinamente sorpresa.
— Non qui... ecco, ho un solo amico qui. A Nessus, avevo i confratelli della nostra corporazione.
— Capisco. — Esitò. — Non c'è motivo per cui dobbiamo andare. Questa festa durerà tutta la notte, ed all'alba, se si starà ancora divertendo, l'arconte farà abbassare le tende per escludere la luce, e forse farà perfino sollevare la copertura del giardino. Possiamo sedere qui per tutto il tempo che vogliamo, e, ogni volta che un servitore passerà di qui, prenderemo da mangiare e da bere. Quando vedremo qualcuno con cui ci farà piacere parlare, lo fermeremo e ci faremo intrattenere.
— Temo che comincerei ad annoiarti prima che la notte sia molto avanzata — obiettai.
— Niente affatto, perché non ho intenzione di permetterti di parlare molto: voglio parlare io, e voglio che tu mi ascolti. Tanto per cominciare... lo sai che sei molto attraente?
— So che non lo sono. Ma, dato che non mi hai mai visto senza maschera, non puoi sapere quale sia il mio aspetto.
— Al contrario.
Si chinò verso di me, come per esaminare il mio volto attraverso le aperture degli occhi. La sua maschera, che era dello stesso colore dell'abito, era tanto piccola da risultare poco più di una convenzione, due cerchi di tessuto a forma di mandorla intorno agli occhi, che però le conferivano un'aria esotica che altrimenti non avrebbe posseduto e le davano anche, credo, un senso di mistero e di protezione che la sollevava da ogni responsabilità.
— Sei un uomo molto intelligente, ne sono certa, ma non sei stato a tante di queste feste quante ne ho viste io, altrimenti avresti imparato l'arte di giudicare le facce senza vederle. Naturalmente, la cosa è più difficile quando la persona che stai guardando ha una maschera di legno che non segue i lineamenti del volto, ma anche allora si possono capire molte cose. Hai il mento appuntito, vero, con una fossetta?
— Sì al mento appuntito — risposi, — e no alla fossetta.
— Stai mentendo per mandarmi fuori strada, oppure non ti sei mai accorto di averla. Posso giudicare i menti osservando la vita delle persone, particolarmente degli uomini, che sono il principale oggetto del mio interesse... Una vita stretta significa un mento appuntito, e la tua maschera di cuoio lascia scoperto quanto basta per confermare la mia tesi. Anche se profondamente infossati, i tuoi occhi sono grandi e mobili, e questo, in un uomo, denota la presenza di una fossetta nel mento, specialmente quando il volto è sottile. Hai gli zigomi alti... i loro contorni si vedono leggermente sotto la maschera, e le guance piatte li fanno apparire ancora più alti. Hai i capelli neri, naturalmente, perché noto diversi peli neri sul dorso delle tue mani; e labbra sottili che si scorgono attraverso l'apertura della maschera. Dal momento che non riesco a vederle tutte, significa che si piegano, qualità estremamente desiderabile nelle labbra di un uomo.
Non sapevo cosa dire, e, per essere sincero, in quel momento avrei dato molto per potermene andare.
— Vuoi che mi tolga la maschera — chiesi infine, — in modo che tu possa verificare l'esattezza del tuo giudizio?
— Oh, no, non farlo, almeno fino a quando suoneranno la canzone del mattino. Inoltre, devi considerare i miei sentimenti. Se tu lo facessi, ed io scoprissi che, dopo tutto, non sei attraente, sarei privata di una serata interessante. — Si era sollevata a sedere, ed ora mi sorrise e tornò ad appoggiarsi all'indietro sul divano, con i capelli che si allargavano come un'aureola intorno al suo volto. — No, Severian, invece di smascherare il tuo volto, devi smascherare il tuo spirito. Più tardi, lo farai dicendomi tutto quello che faresti se fossi libero di fare tutto quello che vuoi, ed ora comincerai raccontandomi ciò che voglio sapere di te. Sei venuto da Nessus, questo lo so. Perché sei tanto ansioso di trovare le Pellegrine?
VI
LA BIBLIOTECA DELLA CITTADELLA
Mentre mi accingevo a rispondere alla sua domanda, una coppia si avvicinò alla nostra alcova, l'uomo avvolto in un sanbenito, la donna vestita come una midinette. Ci lanciarono solo una fugace occhiata mentre passavano, ma qualcosa... forse l'inclinazione delle loro teste o l'espressione dei loro occhi, mi disse che essi sapevano, o almeno sospettavano, che io non fossi in maschera. Feci tuttavia finta di nulla e dissi:
— Sono venuto accidentalmente in possesso di qualcosa che appartiene alle Pellegrine, e voglio restituirglielo.
— Allora non intendi far loro del male? — chiese Cyriaca. — Non puoi dirmi che cos'è questo oggetto?
Non osavo rivelarle la verità, e, sapendo che mi sarebbe stato chiesto di esibire l'oggetto che avrei nominato, qualunque esso fosse, spiegai:
— Si tratta di un libro... un libro antico e splendidamente illustrato. Non pretendo di sapere qualcosa in merito ai libri, ma sono sicuro che questo ha una notevole importanza religiosa ed è di grande valore. — E trassi dalla mia giberna il libro marrone proveniente dalla biblioteca del Maestro Ultan, che avevo portato via quando avevo lasciato la cella di Thecla.
— Sì, è antico — convenne Cyriaca, — ed abbondantemente segnato dalle intemperie, vedo. Posso dargli un'occhiata?
Glielo porsi e la donna prese a sfogliare le pagine, arrestandosi davanti ad un'immagine del sikinnis; poi lo sollevò fino a che la luce di una lampada sospesa sopra il nostro divano non batté su di esso: gli uomini cornuti parvero balzare nella luce tremolante, e le ninfe rabbrividirono.
— Anch'io non so nulla sui libri — ammise Cyriaca, restituendomelo, — ma ho uno zio che sa molte cose, e credo che pagherebbe parecchio per possedere questo esemplare. Vorrei che fosse qui stasera in modo che lo potesse vedere... anche se credo sia meglio così, perché in quel caso avrei cercato di prenderti il libro in un modo o nell'altro. Mio zio viaggia in ogni pentade, spingendosi altrettanto lontano quanto facevo io quando ero con le Pellegrine, e solo per cercare libri antichi. È stato perfino negli archivi perduti. Ne hai mai sentito parlare? Scossi il capo negativamente.
— Tutto quello che so in merito è quanto lui stesso mi ha detto una volta che aveva bevuto un po' troppo cuvee di nostra produzione, e può darsi che non mi abbia raccontato tutto, perché, mentre gli parlavo, ho avuto l'impressione che avesse un certo timore che io potessi cercare di andare laggiù personalmente. Non l'ho mai fatto, anche se talvolta ho qualche rimpianto. Comunque, a Nessus, molto a sud del tratto di città che la gente visita solitamente, tanto a valle del grande fiume che si è indotti a credere che la città sia finita molto prima, c'è un'antica fortezza. Tutti quanti, salvo forse l'Autarca in persona... possa il suo spirito vivere in migliaia di successori... ne hanno dimenticato l'esistenza molto tempo fa, e si dice che essa sia abitata dagli spiriti. Mio zio ha detto che sorge su una collina che domina il Gyoll, rivolta verso un campo di sepolcri in rovina, e non sembra che abbia alcunché da proteggere.
Cyriaca fece una pausa, muovendo le mani per delineare la collina e la roccaforte nell'aria, ed io ebbi la sensazione che avesse già narrato molte volte quella storia, forse ai suoi bambini. Questo pensiero mi fece comprendere che Cyriaca era abbastanza avanti negli anni da poter avere figli, a loro volta abbastanza grandi da essere in grado di ascoltare ripetutamente sia questo che altri racconti. Gli anni non avevano lasciato traccia sulla sua pelle liscia e sensuale, ma la luce della candela della giovinezza, che ardeva ancora così forte e limpida in Dorcas, che aveva riversato il suo chiarore irreale perfino su Jolenta, che era trasparsa dura e lucente nella forza di Thecla ed aveva illuminato i sentieri velati di nebbia della necropoli quando sua sorella Thea aveva preso la pistola di Vodalus vicino alla tomba aperta, in Cyriaca si era estinta da così tanto tempo che non rimaneva neppure il profumo della sua fiamma. Provai compassione per quella donna.
— Ora devi ascoltare la storia di come la razza dei giorni andati raggiunse le stelle e di come, per potervi riuscire, cedette in cambio la metà selvaggia del proprio essere, in modo da non assaporare più il soffio pallido del vento, né provare più amore o bramosia, né desiderare di comporre nuove canzoni o di cantare quelle vecchie, né conservare tutte quelle altre caratteristiche animalesche che essa era convinta di aver portato con sé quando era uscita dalle piovose foreste in fondo all'abisso del tempo... anche se in realtà, così mi ha detto mio zio, erano state quelle caratteristiche a spingerla fuori dalla foresta. E tu saprai, o dovresti comunque sapere, che coloro cui gli uomini affidarono queste cose, entità che erano creazioni delle loro stesse mani, le odiarono nel profondo del cuore, poiché esse avevano realmente un cuore, anche se coloro che le avevano create non lo credevano possibile. Comunque, queste entità decisero di distruggere i loro creatori, e lo fecero restituendo all'umanità, quando questa si fu sparpagliata su migliaia di soli, le cose che erano state affidate loro molto tempo prima.
«Tutto ciò dovresti saperlo già. Mio zio mi ha parlato una volta così come io ora parlo a te; disse di aver trovato tutto questo ed altre cose ancora scritte in un libro della sua collezione, un libro che egli riteneva nessuno avesse aperto da una chiliade.
«Ma come essi fecero ciò che fecero è meno noto. Rammento che, quando ero bambina, immaginavo di vedere le macchine cattive che scavavano... scavavano di notte fino a svellere le radici contorte dei vecchi alberi ed a riportare alla luce una cassa di ferro che esse avevano sepolto quando il mondo era molto giovane, ed immaginavo che, quando le macchine toglievano il lucchetto della cassa, tutte le cose di cui abbiamo parlato ne uscivano volando come uno sciame di api dorate. So che è sciocco, ma ancora oggi non riesco ad intuire quale possa essere stata la vera natura di quei motori pensanti.
Mi rammentai di Jonas, e delle piastre di metallo leggero e lucente che lui aveva al posto della pelle dei lombi, ma non riuscii ad immaginare Jonas nell'atto di scatenare una pestilenza che affliggesse la razza umana; quindi scossi il capo.
— Ma mio zio diceva che il libro spiegava chiaramente cos'avevano fatto le macchine, e che le cose che esse avevano liberato non erano uno sciame di insetti, ma un flusso di manufatti di ogni tipo, che, in base ai loro calcoli, avrebbero dovuto far rinascere quei pensieri che la gente si era lasciata alle spalle perché non potevano essere tradotti in numeri. La costruzione di ogni cosa, dalle città agli strumenti per pasticceria, era affidata alle macchine, e, dopo aver trascorso migliaia di vite a costruire città simili a grandi meccanismi, esse presero a costruire altre città che somigliavano a banchi di nubi che precedono la tempesta, ed altre ancora che sembravano scheletri di draghi.
— E questo quando accadde? — chiesi.
— Molto, molto tempo fa... prima che venissero posate le prime pietre di Nessus.
Le avevo passato un braccio intorno alle spalle, ed ora lei lasciò che la sua mano mi scivolasse in grembo, ed avvertii il suo tocco e la lenta ricerca.
— E le macchine seguirono gli stessi criteri in tutto quello che facevano — continuò a narrare. — Nel modellare i mobili, per esempio, e nel tagliare gli abiti. E, poiché i capi che avevano deciso, così tanto tempo prima, che tutti i pensieri rappresentati dagli abiti, dai mobili e dalle città dovevano rimanere alle spalle dell'umanità, erano ormai morti da parecchio, e la gente aveva dimenticato i loro volti e le loro teorie, la popolazione accolse con gioia i nuovi oggetti. E così, tutto il loro impero, che era basato esclusivamente sull'ordine, si dissolse.
«Ma anche se l'impero si dissolse, i mondi ci misero molto più tempo a morire. Inizialmente, affinché le cose che stavano restituendo agli umani non venissero rigettate, le macchine organizzarono spettacoli e fantasmagorie, le cui rappresentazioni ispirassero coloro che le guardavano a pensare alla fortuna o alla vendetta o al mondo dell'invisibile. Più tardi, le macchine diedero a ciascun uomo e donna un compagno, invisibile agli occhi di tutti gli altri, che li consigliasse. I bambini avevano già da tempo simili compagni.
«Quando i poteri delle macchine si furono ulteriormente indeboliti... secondo i desideri delle macchine stesse, esse non riuscirono a mantenere quei fantasmi nelle menti dei loro padroni, e non poterono più costruire città, prima che quelle già esistenti si fossero quasi del tutto svuotate.
«Le macchine, almeno così mi disse mio zio, erano arrivate al punto in cui speravano che la razza umana si sarebbe rivoltata contro di loro e le avrebbe distrutte, ma non accadde nulla di tutto questo, perché quelle macchine, che in passato erano state disprezzate come schiave o adorate come demoni, erano ormai profondamente amate dagli uomini.
«Fu così che esse chiamarono intorno a sé le persone che le amavano maggiormente, e, per lunghi anni, insegnarono loro tutte quelle cose che la loro razza aveva accantonato, prima di morire.
«Allora, tutti coloro che avevano amato le macchine e che erano stati amati da esse, si radunarono per decidere in che modo avrebbero potuto preservare gli insegnamenti ricevuti, perché sapevano bene che macchine di quella specie non sarebbero mai più apparse su Urth. Ma fra loro scoppiarono amare dispute: essi non avevano studiato insieme, ma piuttosto ciascun uomo e ciascuna donna aveva ascoltato una delle macchine come se al mondo non fosse esistito altro, e, poiché c'era tanto sapere e solo pochi che potessero apprenderlo, le macchine avevano insegnato a ciascuno cose differenti.
«Così, essi si divisero in gruppi, e ciascun gruppo a sua volta si divise in due, e poi ancora in due, e poi ancora, fino a che rimasero solo individui separati, incompresi, ed oltraggiati dagli altri e che a loro volta oltraggiavano i compagni. Ciascuno se ne andò per conto proprio, fuori dalle città o più addentro ad esse, salvo pochissimi che, per abitudine, rimasero nei palazzi abitati dalle macchine per vigilare sui loro corpi.
Un sommelier ci portò due coppe di vino limpido quasi quanto l'acqua ed altrettanto quieto, fino a quando veniva destato da qualche moto della coppa. Il suo profumo era simile a quello di quei fiori che nessun uomo può vedere, quei fiori che solo i ciechi sono in grado di trovare. E bere quel vino era come bere forza pura dal cuore di un toro. Cyriaca prese con avidità la sua coppa, e, dopo averla vuotata, la gettò in un angolo, dove cadde tintinnando.
— Parlami ancora — l'incitai, — di questa storia degli archivi perduti.
— Quando l'ultima macchina fu fredda ed immota e ciascuno di coloro che avevano appreso da esse il patrimonio proibito che l'umanità aveva accantonato si separò da tutti gli altri, allora il timore scese nel cuore di ognuno, poiché tutti sapevano di essere solo comuni mortali, e, per la maggior parte, non più giovani. Ognuno comprese che, con la sua morte, il sapere che più gli era caro sarebbe morto con lui, e quindi... credendo di essere l'unico a farlo... cominciò a mettere per iscritto tutto quello che aveva appreso durante i lunghi anni in cui aveva prestato ascolto agli insegnamenti che svelavano tutto il sapere nascosto, relativo alle caratteristiche selvagge dell'uomo. Molti di quegli scritti andarono perduti, ma molti di più sopravvissero, cadendo talvolta nelle mani di persone che li copiavano, ravvivandoli con aggiunte personali o indebolendoli con omissioni... Baciami, Severian.
Nonostante la mia maschera ci ostacolasse, le nostre labbra s'incontrarono, e, mentre Cyriaca si traeva indietro, mi si affollarono nella mente i ricordi velati degli antichi, scherzosi affari amorosi di Thecla, giocati fra i boudoirs pseudothyri e catachtoniani della Casa Assoluta, e dissi:
— Non lo sai che queste cose richiedono la più completa attenzione da parte di un uomo?
— È per questo che l'ho fatto — sorrise Cyriaca, — per vedere se mi stavi ascoltando.
— Comunque, per lungo tempo... nessuno sa quanto, credo, e comunque allora il mondo non era ancora vicino allo spegnimento del suo sole, e gli anni erano più lunghi... quegli scritti circolarono, oppure rimasero a sgretolarsi nei cenotafi dove i lori autori li avevano nascosti per maggior sicurezza, ed erano scritti frammentari, contraddittorii ed esegetici. Poi un autarca (anche se allora non veniva chiamato autarca), nella speranza di ripristinare il dominio esercitato dal primo impero, fece raccogliere quegli scritti dai suoi servitori, uomini vestiti di bianco che saccheggiarono i nascondigli ed abbatterono le androsfingi erette a memoria delle macchine ed entrarono nei cubicoli di donne moiraiche morte da tempo. Il loro bottino fu riunito in un grande mucchio nella città di Nessus, allora appena costruita, perché venisse bruciato.
«Ma, la notte precedente il rogo, l'autarca di quel tempo, che prima di allora non aveva mai sognato i sogni sfrenati del sonno, ma solo sogni ad occhi aperti di dominio, finalmente fece un sogno, e vide tutti i mondi selvaggi della vita e della morte, delle pietre e dei fiumi, delle bestie e degli alberi che gli scivolavano per sempre dalle mani.
«Quando fu mattino, egli ordinò che non si accendessero le torce, e che venisse invece costruita una grande volta per ospitare tutti quei volumi e quelle pergamene che gli uomini vestiti di bianco avevano raccolto. Ordinò questo perché pensava che se, alla fine, l'impero che progettava di costruire non fosse sorto, avrebbe sempre potuto ritirarsi nella cupola ed entrare in quei mondi che, ad imitazione degli antichi, era deciso ad accantonare.
«Il suo impero lo tradì, come era destino che facesse, perché non si può trovare il passato in un futuro che non lo contiene più... almeno non finché il mondo metafisico, che è molto più grande e quindi molto più lento di quello fisico, abbia completato la sua rivoluzione e sia sorto il Sole Nuovo. Ma l'autarca non si ritirò, come aveva progettato, nella cupola, all'interno del muro di protezione di cui l'aveva fatta circondare, perché quando l'uomo si è gettato alle spalle le cose selvagge una volta per tutte, queste imparano a riconoscere le trappole e non si lasciano più ricatturare.
«Nondimeno, si narra che, prima che tutto ciò che egli aveva raccolto venisse sigillato per sempre, l'autarca mise un guardiano a proteggerlo, e che, quando il tempo di quel guardiano su Urth fu scaduto, questi si scelse un successore, che se ne scelse uno a sua volta, cosicché essi rimasero sempre fedeli ai comandi dell'autarca, perché erano saturi dei pensieri selvaggi emanati dal sapere salvato dalle macchine, ed una simile fedeltà fa parte di quelle cose selvagge.
Mentre Cyriaca parlava, io l'avevo spogliata, e le stavo baciando il seno, ma osservai ugualmente:
— Ma, tutti quei pensieri di cui hai parlato, hanno forse abbandonato il mondo, dopo che l'autarca li ha sigillati? Ho mai sentito parlare di loro?
— No, perché sono stati trasmessi di mano in mano per lungo tempo, e sono penetrati nel sangue di tutto il popolo. Inoltre, si dice che talvolta il guardiano li mandi fuori, e che, anche se alla fine essi tornano sempre a lui, quei libri vengano letti, da uno o da molti, prima di sprofondare ancora nell'oscurità.
— È una storia meravigliosa — commentai, — e credo di saperne più di te in merito, ma non l'avevo mai sentita prima. — Scoprii che aveva le gambe lunghe, lisce e ben modellate, dalle cosce simili a cuscini di seta alle snelle caviglie. Tutto il suo corpo era modellato per il piacere.
Le sue dita toccarono il fermaglio del mio mantello.
— Devi proprio toglierlo? — chiese. — Non ci può coprire?
— Lo può — risposi.
VII
ATTRAZIONI
Sprofondai quasi nel piacere che mi diede Cyriaca, poiché, anche se non l'amavo come avevo un tempo amato Thecla, né come ancora amavo Dorcas, ed anche se non era splendida come lo era stata Jolenta, provavo ugualmente per lei un tenerezza che era solo in parte generata dal vino che avevo bevuto; Cyriaca era l'incarnazione di quel tipo di donna che avevo sognato quando ero ancora un ragazzo lacero, nella Torre di Matachin, prima di aver mai contemplato il volto a forma di cuore di Thea vicino alla tomba aperta, e sapeva molto di più sulle arti dell'amore delle altre tre.
Quando ci alzammo, ci avvicinammo ad un'argentea fontana per lavarci. Là c'erano due donne che erano state amanti come lo eravamo stati noi, e che ci fissarono, ridendo; ma, accorgendosi che non avrei avuto pietà di loro solo perché erano donne, fuggirono strillando.
Ci lavammo a vicenda, e so che Cyriaca si aspettava che a quel punto la lasciassi, come io mi aspettavo che lei se ne andasse, ma non ci separammo (anche se forse sarebbe stato meglio se lo avessimo fatto), e ci avviammo invece verso un silenzioso giardinetto, pieno di oscurità, dove sostammo vicino ad una fontana solitaria.
Cyriaca mi teneva la mano, ed io tenevo la sua, come spesso fanno i bambini.
— Hai mai visto la Casa Assoluta? — mi chiese. Stava osservando le nostre immagini riflesse nell'acqua illuminata dalla luna, e la sua voce era tanto bassa che la udii a stento.
Le dissi che vi ero stato, e, a quelle parole, la sua mano strinse maggiormente la mia.
— Hai visitato la Fontana delle Orchidee? — chiese ancora, e, quando scossi il capo, aggiunse: — Anch'io sono stata alla Casa Assoluta, ma non ho mai visto la Fontana delle Orchidee. Si dice che, quando l'Autarca ha una consorte... cosa che il nostro non ha... lei tiene là la sua corte, nel luogo più bello del mondo. Anche oggi, solo alle più belle è permesso di passeggiare in quel luogo. Quando siamo andati laggiù, il mio signore ed io abbiamo alloggiato in un piccola stanza adeguata al nostro rango di armigeri. Una sera, mentre il mio signore era assente ed io non sapevo dove fosse, uscii nel corridoio, e, guardando a destra ed a sinistra, vidi passare un alto funzionario della corte. Non conoscevo né il suo nome né la sua carica, ma lo fermai e gli chiesi se potevo andare alla Fontana delle Orchidee.
Cyriaca fece una pausa, e, per il tempo di due o tre respiri, non vi fu altro suono che la musica proveniente dal padiglione e lo sgocciolio della fontana.
— L'uomo si fermò e mi guardò — riprese Cyriaca, — credo con una certa sorpresa. Non puoi sapere come ci si sente ad essere una piccola armigera del nord, con un abito cucito dalle tue cameriere e gioielli provinciali, ed essere guardata in quel modo da qualcuno che ha trascorso tutta la vita fra gli esultanti della Casa Assoluta. Poi, sorrise. — Adesso Cyriaca mi stringeva terribilmente la mano. — Mi disse di andare giù per un certo corridoio, di svoltare ad una certa statua, di salire certi scalini e di seguire un sentiero d'avorio. Oh, Severian, amore mio!
Il suo volto era raggiante come la luna stessa, ed io compresi che quel momento che mi aveva appena descritto aveva rappresentato il culmine della sua vita, e che ora Cyriaca custodiva come un tesoro l'amore che le avevo dato perché esso, in parte o forse in larga misura, le aveva fatto rammentare quell'attimo in cui la sua bellezza era stata soppesata da un uomo che lei aveva ritenuto degno di giudicarla, ed era stata trovata priva di pecche. La ragione mi disse che avrei dovuto offendermi per questo, ma non riuscii a trovare in me traccia di risentimento.
— Lui se ne andò, ed io presi a camminare come mi aveva detto... per una ventina di passi... forse due ventine. Poi, incontrai il mio signore e lui mi ordinò di far ritorno alla nostra stanzetta.
— Capisco — dissi, spostando la spada sulla spalla.
— Credo che tu capisca.-È forse sbagliato che io lo tradisca in questo modo? Che cosa ne pensi?
— Io non sono un magistrato.
— Tutti mi giudicano... tutti i miei amici... tutti i miei amanti, dei quali tu non sei il primo e non sarai neppure l'ultimo; perfino quelle donne che abbiamo incontrato nel calidarium poco fa.
— Noi siamo addestrati fin dall'infanzia a non giudicare, ma solo ad eseguire le sentenze che ci vengono trasmesse dalle corti della Repubblica. Non giudicherò né te né lui.
— Io giudico — rispose Cyriaca, e volse il viso verso la luce viva e dura delle stelle. Per la prima volta da quando l'avevo intravista dall'altra parte dell'affollata sala da ballo, compresi perché l'avevo scambiata per una monaca dell'ordine di cui portava l'abito. — O, almeno, dico a me stessa che giudico, e mi trovo colpevole, ma non mi posso fermare. Credo di attirare gli uomini come te. Ti sei sentito attratto? Là dentro c'erano altre donne più belle di me, lo so.
— Non ne sono certo — replicai. — Mentre stavamo venendo qui a Thrax...
— Anche tu hai una storia, vero? Racconta, Severian. Io ti ho già detto quella che è quasi la sola cosa interessante che mi sia accaduta.
— Lungo la strada per venire qui, noi... ti spiegherò in un altro momento con chi stavo viaggiando, ci siamo imbattuti in una strega, nella sua apprendista e nel suo cliente, che si erano recati in un certo luogo per far reincarnare il corpo di un uomo morto da lungo tempo.
— Davvero? — Gli occhi di Cyriaca brillarono. — Che meraviglia! Ho sentito parlare di simili cose, ma non le ho mai viste. Raccontami tutto, ma bada che sia la verità.
— In realtà, non c'è molto da dire. La nostra via attraversava una città deserta, e, avendo visto il loro fuoco, ci siamo avvicinati, perché avevamo con noi una persona malata. Quando la strega ha riportato alla vita l'uomo che era stata pagata per risuscitare, ho creduto inizialmente che stesse rigenerando l'intera città, ed ho compreso la verità solo parecchi giorni dopo...
Scoprii che non potevo dire che cosa avevo capito, perché quella era in effetti una comprensione che andava al di là dei livelli del linguaggio, che esisteva ad un livello inconcepibile, anche se ci troveremmo sempre immersi inconsapevolmente in esso se non fosse per la costante disciplina che abbiamo imparato ad esercitare su di noi.
— Va' avanti.
— Naturalmente, non compresi realmente. Ci penso ancora, ed ancora non riesco a capire; ma so in qualche modo, che la strega stava richiamando in vita lui, e lui stava riportando in vita con sé la città di pietra, come sfondo per la sua esistenza. Qualche volta mi trovo a pensare che quella città non abbia mai avuto consistenza reale, e che solo lui sia esistito, cosicché, quando siamo passati fra le pavimentazioni e le mura diroccate, abbiamo in realtà cavalcato fra le sue ossa.
— E lui è venuto? — chiese Cyriaca. — Racconta!
— Sì, è ritornato, e poi il cliente della strega è morto, ed è morta anche la donna malata che avevamo con noi. Ed Apu-Punchau... questo era il nome del morto... era di nuovo svanito. Le streghe sono corse via, credo, anche se forse sono volate via, ma quello che volevo realmente dire è che, il giorno successivo, abbiamo proseguito a piedi, e ci siamo fermati per la notte nella capanna di una famiglia povera. E quella notte, mentre la donna che era con me dormiva, io ho parlato con un uomo che sembrava sapere molte cose sulla città di pietra, anche se non ne conosceva il nome originale. Ed ho parlato anche con sua madre, che credo sapesse più di lui, anche se non ha voluto dire molto.
Esitai, trovando difficile parlare di simili cose a quella donna.
— All'inizio — proseguii poi, — avevo supposto che i loro antenati fossero originari di quella città, ma essi mi dissero che la città era andata distrutta molto tempo prima dell'arrivo della loro razza. Eppure, conoscevano tante cose su di essa, perché l'uomo aveva cercato tesori fra le sue mura fin da quando era ragazzo, anche se, come mi assicurò, non aveva mai trovato nulla, salvo che pentole e pietre rotte e le tracce di altri cercatori che erano giunti là molto prima di lui.
«"Nei tempi antichi - mi disse sua madre, - la gente credeva che si potesse ritrovare l'oro sepolto nascondendo nel terreno qualche moneta e pronunciando questo o quell'incantesimo. Molti lo hanno fatto, ed alcuni hanno dimenticato il punto dove avevano messo le monete o non hanno potuto recuperarle. Questo è ciò che trova mio figlio, e da cui ci viene il pane che mangiamo."
Mi tornò in mente quella donna come l'avevo vista quella notte, vecchia e curva, mentre si scaldava le mani al piccolo fuoco d'erba. Forse somigliava a qualcuna delle vecchie nutrici di Thecla, perché qualcosa in lei aveva portato Thecla più vicina alla superficie della mia mente di quanto lo fosse stata da quando Jonas ed io eravamo stati imprigionati nella Casa Assoluta, tanto vicina che un paio di volte, guardandomi le mani, ero rimasto stupito dallo spessore delle dita, dal loro colore scuro e dall'assenza di anelli.
— Va' avanti, Severian — incitò ancora Cyriaca.
— Allora — proseguii, — la vecchia raccontò che nella città di pietra c'era qualcosa che attirava i suoi simili. «Devi aver sentito parlare dei negromanti — mi disse, — che cercano gli spiriti dei morti. Ma lo sapevi che fra i morti esistono i vivimanti, che attirano a sé coloro che li possono far rivivere? Nella città di pietra esiste un essere di questo genere, e, una volta o due ogni saros, coloro che egli ha attirato a sé si fermano a cenare con noi.» E poi aggiunse, rivolta al figlio: «Ti rammenti di quell'uomo silenzioso che dormiva accanto al suo bastone? Eri solo un bambino, ma credo che dovresti ricordarti di lui. È stato l'ultimo a venire, fino ad ora.» E in quell'istante compresi che anch'io ero stato attirato dal vivimante Apu-Punchau, anche se non avevo provato nulla di tangibile.
— Forse, allora, io sono morta? — fece Cyriaca, lanciandomi un'occhiata in tralice. — È questo quello che mi stai dicendo? Tu mi hai raccontato che c'era un strega, che era la negromante, e che ti sei imbattuto per caso nel fuoco, ma io credo che la strega di cui hai parlato fossi tu, che indubbiamente la persona malata fosse il tuo cliente e la donna la tua apprendista.
— Questo perché ho tralasciato di narrarti le parti della storia che non hanno importanza — risposi, ed avrei voluto ridere all'idea di poter essere preso per uno stregone. Ma l'Artiglio mi premette contro il diaframma e mi disse che, per mezzo del suo potere rubato, io ero effettivamente uno stregone in tutto, salvo che nella coscienza di esserlo. Ed io compresi... come avevo già compreso in precedenza... che, sebbene Apu-Punchau fosse riuscito ad avere l'Artiglio a portata di mano, non aveva potuto (o non aveva voluto?) prendermelo. — La cosa più importante — aggiunsi, — è che quando il morto resuscitato svanì, si lasciò alle spalle nel fango una delle cappe scarlatte delle Pellegrine, come quella che indossi ora. Forse le Pellegrine si dilettano di negromanzia?
Non sentii mai la risposta alla mia domanda, perché, proprio nel momento in cui la pronunciavo, l'alta figura dell'arconte si avvicinò lungo lo stretto sentiero che portava alla fontana. Era vestito e mascherato come un barghest, cosicché non Io avrei riconosciuto se lo avessi incontrato in un luogo illuminato; ma, nella penombra del giardino, veniva privato del suo travestimento, per cui lo riconobbi non appena vidi la sua alta figura e la sua andatura.
— Ah — mi disse, — l'hai trovata. Avrei dovuto prevederlo.
— Lo pensavo — gli risposi, — ma non ne ero sicuro.
VIII
IN CIMA ALL'ALTURA
Lasciai il palazzo dell'arconte attraverso uno dei cancelli che davano sull'entroterra. Là c'erano di guardia sei soldati, che non avevano nulla dell'aria rilassata che aveva caratterizzato l'atteggiamento dei due guardiani al cancello sul fiume, appena pochi turni di guardia prima.
Uno di loro, sbarrandomi la strada con educazione ma in modo deciso, mi chiese se era tanto necessario che me ne andassi così presto. Mi qualificai e risposi che temevo proprio di dover andare, perché avevo ancora molto lavoro da svolgere quella notte (ed era vero) e perché il giorno dopo mi aspettava una dura giornata (il che era altrettanto vero).
— Allora sei un eroe — la voce del soldato suonò leggermente più amichevole. — Non hai una scorta, Littore?
— Avevo due clavigeri, ma li ho congedati: non c'è motivo perché non riesca a ritrovare da solo la strada fino al Vincula.
— Puoi rimanere qui fino al mattino — intervenne un altro soldato che non aveva ancora parlato. — Ti troveremo una cuccetta tranquilla per riposare.
— Grazie, ma così non potrei sbrigare il mio lavoro. Temo di dover andar via adesso.
Il soldato che mi bloccava la strada si fece da parte, dicendo:
— Mi piacerebbe farti accompagnare da un paio di uomini, e, se puoi aspettare un momento, lo farò: devo ottenere il permesso dall'ufficiale di guardia.
— Non sarà necessario — replicai, e mi allontanai prima che i soldati potessero aggiungere altro. Qualcosa... forse l'assassino di cui mi aveva parlato il mio sergente... si stava evidentemente muovendo nella città, e mi parve quasi sicuro che un altro omicidio si fosse verificato durante il periodo in cui ero rimasto nel palazzo dell'arconte. Quel pensiero mi riempì di un piacevole senso di eccitamento... non perché io fossi tanto sciocco da ritenermi superiore a qualsiasi attacco, ma perché l'idea di essere attaccato, di rischiare la morte quella notte nelle oscure strade di Thrax, servì a dissipare in parte il senso di depressione che altrimenti provavo. Quel terrore incorporeo, quella minaccia notturna senza volto, era il primo dei miei terrori infantili, e, come tale, ora che mi ero da tempo lasciato alle spalle la fanciullezza, aveva quel non so che di piacevole che hanno tutte le cose dell'infanzia quando si è adulti.
Mi trovavo già sulla stessa riva del fiume su cui sorgeva lo jacal che avevo visitato quel pomeriggio, e non c'era bisogno che prendessi di nuovo la barca, ma le strade mi erano sconosciute, e, nel buio, sembravano quasi un labirinto costruito per confondermi, per cui sbagliai parecchie volte prima di riuscire ad imboccare la stretta stradina che stavo cercando e che portava su per la collina.
Gli edifici ai lati della stradina, che erano immersi nel silenzio mentre attendevano che la possente ombra dell'immenso muro di pietra che sorgeva di fronte a loro si levasse a coprire il sole, risuonavano ora di mormorii di voci, ed alcune finestre splendevano della luce di lampade a olio. Mentre Abdiesus festeggiava nel suo palazzo vicino al fiume, anche la gente umile che viveva sulla collina faceva festa, ma in un modo che differiva da quello dell'arconte per il fatto che era più quieto.
Udii suoni d'innamorati mentre passavo, così come li avevo uditi nel giardino dell'arconte dopo aver lasciato Cyriaca per sempre, e sentii voci di uomini e di donne che discorrevano quietamente, ed anche rumori di litigi, qua e là. Il giardino del palazzo era profumato dai fiori, e la sua aria era lavata dalle fontane e dalla grande fiumana dell'Acis che scorreva appena fuori di esso. Qui, quegli odori non si avvertivano, ma la brezza che soffiava fra gli jacals e le grotte dalle aperture chiuse portava talvolta una puzza di rifiuti, talaltra l'aroma del tè o il profumo di qualche umile stufato, o anche solo l'odore della limpida aria montana.
Quando arrivai tanto in alto, su per la collina, da trovarmi dove non abitava nessuno che fosse abbastanza ricco da potersi permettere un mezzo d'illuminazione più costoso di un semplice fuoco, mi volsi a fissare la città come l'avevo osservata... anche se con uno spirito del tutto differente... dai bastioni del Castello di Acies quel pomeriggio. Si dice che nelle montagne ci siano crepacci tanto profondi che si possono scorgere in fondo ad essi le stelle... crepacci, quindi, tanto profondi da arrivare dall'altra parte del mondo, ed io ebbi ora l'impressione di averne trovato uno: era come guardare una costellazione, come se tutta Urth fosse svanita ed io stessi fissando un golfo stellato.
Mi sembrava probabile che in quel momento avessero ormai cominciato a cercarmi, ed immaginai i dimarchi dell'arconte che galoppavano per le strade portando magari con sé le fiaccole prese nel giardino. Molto peggiore era per me immaginare i clavigeri, che erano stati fino a quel momento ai miei ordini, uscire dal Vincula per cercarmi, ma non vidi alcuna luce muoversi e non udii alcun debole, rauco grido, e, se c'era agitazione nel Vincula, era un'agitazione che non si estendeva alle silenziose strade che si diramavano come una ragnatela sul pendio dall'altra parte del fiume. Avrebbe dovuto anche esserci un bagliore tremolante là dove il grande portone si spalancava per far uscire gli uomini appena destati, poi si chiudeva, poi tornava ad aprirsi; ma non vidi nulla. Infine, mi voltai e ripresi a salire: l'allarme non era ancora stato dato, ma era solo questione di tempo.
Nello jacal non c'era luce, né suono di conversazione. Estrassi l'Artiglio dalla sua sacca prima di entrare, per timore di non aver il coraggio di farlo una volta all'interno. Talvolta, esso brillava come un fuoco artificiale, come aveva fatto nella locanda di Saltus, mentre in altre occasioni non possedeva più luce di un pezzo di vetro. Quella notte, nello jacal, non era splendente, ma ardeva di una bagliore di un azzurro tanto cupo che la sua luce sembrava quasi un'oscurità più tenue di quella notturna. Di tutti i nomi dati al Conciliatore, quello meno usato e che mi aveva sempre lasciato sconcertato era il nome di Sole Nero, ma, a partire da quella notte, ebbi l'impressione di riuscire quasi a comprendere quel nome. Non potevo indurali a tenere la gemma fra le dita, come avevo già fatto in passato e come avrei ancora fatto in seguito, quindi deposi la gemma sul palmo della mano destra, in modo che il mio tocco non fosse più sacrilego del necessario, e, tenendola dinnanzi a me, mi chinai ed entrai nello jacal.
La ragazza giaceva dove l'avevo vista quel pomeriggio; se respirava, io non riuscii a sentirla, e non si muoveva. Il ragazzo con l'occhio malato dormiva sulla nuda terra ai piedi della sorella. Doveva aver comprato un po' di cibo con il denaro che gli avevo dato, perché sul pavimento erano sparse bucce di granoturco e di frutti. Per un momento, osai sperare che nessuno dei due si svegliasse.
La luce cupa dell'Artiglio mi mostrò il volto della ragazza come qualcosa di più debole ed orrendo di quanto mi fosse parso alla luce del giorno, accentuando le depressioni sotto gli occhi e l'infossatura della guance. Sentii che avrei dovuto dire qualcosa, che avrei dovuto invocare l'Increato ed i suoi messaggeri con qualche formula, ma la mia bocca era più arida e priva di parole di quella di una bestia. Lentamente, abbassai la mano verso di lei fino a quando la sua ombra non bloccò la luce che le bagnava il volto. Quando tornai a sollevare la mano, non vidi alcun mutamento nelle condizioni della ragazza, e, rammentando come l'Artiglio non avesse aiutato Jolenta, mi chiesi se fosse possibile che la pietra non avesse efficacia sulle donne, o se in quel caso dovesse necessariamente tenerla in mano un'altra donna. Poi, toccai la fronte della ragazza con la pietra, in modo che, per un momento, parve che in quel viso quasi cadaverico fosse spuntato un terzo occhio.
Di tutti gli usi che ho fatto della pietra, quello è stato il più stupefacente, e forse l'unico in cui non era possibile attribuire l'accaduto alla mia credulità o ad una coincidenza, per quanto esasperata essa fosse. Poteva anche darsi che l'emorragia dell'uomo-scimmia si fosse arrestata a causa della credulità di quest'ultimo, che l'ulano incontrato lungo la strada della Casa Assoluta fosse solamente stordito e che si sarebbe comunque ripreso, e che l'apparente guarigione delle ferite di Jonas non fosse stato altro che uno scherzo della luce.
Ma adesso era come se un qualche potere inimmaginabile avesse agito nell'intervallo fra un chronon e l'altro per deviare l'universo dal suo cammino. Gli occhi della ragazza, neri come polle d'acqua, si aprirono, ed il suo volto non era più il teschio di prima ma solo la faccia tesa e sciupata di una giovane donna.
— Chi sei tu, con quegli abiti vivaci? — mi chiese, e poi aggiunse: — Oh, sto sognando.
Le dissi che ero un amico e che non doveva aver paura.
— Non ho paura — rispose. — Ne avrei se fossi sveglia, ma ora non lo sono. Sembri appena caduto dal cielo, ma so che sei soltanto l'ala di qualche povero uccello. Ti ha catturato Jader? Canta per me...
I suoi occhi si richiusero, e questa volta udii il suo lento respiro. Il suo volto rimase com'era quando gli occhi erano aperti... minuto e teso, ma il marchio della morte era stato cancellato da esso.
Le tolsi la gemma dalla fronte e sfiorai con essa l'occhio del ragazzo, come avevo fatto con la fronte della sorella, ma non sono sicuro che questo fosse necessario, dato che l'occhio appariva normale già prima che l'Artiglio lo toccasse, per cui forse l'infezione era già stata debellata. Jader si agitò nel sonno e gridò come se stesse sognando di correre e d'incitare altri ragazzi più lenti a seguirlo.
Riposi l'Artiglio nella sua sacca e sedetti sul pavimento di terra, fra le bucce, restando in ascolto. Qualche tempo dopo Jader si quietò nuovamente.
La luce delle stelle tracciava un piccolo disegno vicino alla porta, ma, per il resto, lo jacal era completamente al buio. Potevo sentire il respiro della giovane donna e quello del ragazzo.
La malata aveva detto che io, che indossavo il manto di fuliggine dal giorno della mia elevazione ad apprendista, e che, prima di allora, avevo indossato solo stracci grigi, portavo un abito dai colori brillanti. Sapevo che era rimasta abbagliata dalla luce che le ardeva sulla fronte, e che qualsiasi cosa, qualsiasi vestito, in quel momento le sarebbe parso brillante, eppure sentivo che, in un certo senso, lei aveva ragione. Non era che (come sarei tentato di scrivere) io fossi arrivato ad odiare il mio manto, i calzoni e gli stivali; piuttosto, ero arrivato a capire che quell'abito era davvero il travestimento a causa del quale ero stato scambiato al palazzo dell'arconte, o il costume che era sembrato essere quando avevo partecipato alla commedia del Dr. Talos.
Anche un torturatore è un uomo, e non è naturale che un uomo vesta sempre e soltanto abiti di quella tonalità più scura del nero. Avevo disprezzato la mia ipocrisia quando avevo indossato il mantello marrone acquistato nella bottega di Agilus, ma forse la fuliggine che avevo celato sotto di esso era un'ipocrisia altrettanto grande, se non più grande ancora.
Poi, la verità cominciò ad imporsi alla mia mente: se mai ero stato un torturatore, un torturatore nel modo in cui lo erano il Maestro Gurloes ed il Maestro Palaemon, non lo ero più. Qui a Thrax mi era stata offerta una seconda occasione, avevo fallito anche in questa, e non ne avrei avuta una terza. Potevo ottenere qualche impiego grazie al mio abbigliamento ed alle mie capacità, ma questo era tutto; e, naturalmente, sarebbe stato meglio per me distruggere quegli abiti non appena possibile e cercare di farmi posto fra i soldati che combattevano a nord, una volta che fossi riuscito... se mai ce l'avrei fatta... a restituire l'Artiglio.
Il ragazzo si mosse e chiamò un nome che doveva essere quello della sorella, che mormorò a sua volta qualcosa nel sonno. Mi alzai, li osservai ancora per un momento, poi scivolai fuori, temendo che la vista del mio volto duro e della mia lunga spada li spaventasse.
IX
LA SALAMANDRA
Fuori, le stelle sembravano più luminose, e, per la prima volta da parecchie settimane, l'Artiglio aveva smesso di premere contro il mio petto.
Quando discesi lo stretto sentiero, non ebbi più bisogno di voltarmi a guardare la città, perché essa giaceva sotto di me, espandendosi in diecimila luci tremolanti, dai fuochi di guardia del Castello di Acies ai riflessi delle finestre illuminate nell'acqua che si precipitava verso il Capulus.
Ormai, tutte le porte erano chiuse davanti a me, e, se i dimarchi non si erano ancora mossi, lo avrebbero fatto prima che io raggiungessi la riva pianeggiante; ma io ero deciso a vedere Dorcas ancora una volta prima di lasciare la città, e, in qualche modo, non dubitavo affatto della mia capacità di riuscirci. Stavo appena iniziando a studiare il modo per superare successivamente le mura, quando una nuova luce si accese più in basso.
A quella distanza, la luce appariva piccola, una capocchia di spillo come le altre, ma non era affatto simile alle altre, e forse la mia mente la definì una luce solo perché non sapeva a cos'altro paragonarla. Avevo visto una pistola a pieno potenziale far fuoco la notte in cui Vodalus aveva dissotterrato la donna morta... un uniforme raggio di energia che aveva trapassato la nebbia circostante come un lampo. Questo fuoco non era uguale a quello, ma non mi veniva in mente nulla di meglio cui paragonarlo. Esso arse per breve tempo, poi si estinse, e, un battito di palpebre più tardi, mi sentii toccare il volto da un'ondata di calore.
Al buio, chissà come, non riuscii ad individuare la piccola locanda chiamata il Nido dell'Anitra, e non ho mai saputo se avevo svoltato nel punto sbagliato o se semplicemente avevo oltrepassato le finestre sprangate senza vedere l'insegna che le sovrastava. Comunque, le cose andarono così, e presto mi ritrovai più lontano dal fiume di quanto avrei dovuto, lungo strade che correvano, almeno per qualche tempo, parallele alla superficie della collina, con l'odore di carne bruciata che mi permaneva nelle narici come una sorta di marchio. Stavo per tornare sui miei passi, quando andai a sbattere contro una donna, e l'urto reciproco fu tanto violento ed inaspettato che per poco non caddi; nel barcollare all'indietro, sentii il tonfo del corpo della donna sul selciato.
— Non ti avevo vista — mi scusai, chinandomi per aiutarla.
— Scappa! Scappa! — annaspò la donna, e poi, con voce vagamente familiare, mi supplicò: — Oh, aiutami ad alzarmi.
— Perché dovrei scappare? — chiesi, tirandola su; nella debole luce potevo vedere confusamente il suo volto ed anche, mi parve, il terrore che vi era dipinto.
— Ha ucciso Jurmin. Lo ha bruciato vivo. Il suo bastone bruciava ancora quando lo abbiamo trovato. Lui... — Qualsiasi cosa la donna stesse per dire venne soffocata dai singhiozzi.
— Che cosa ha bruciato Jurmin? — chiesi, e, quando non mi rispose, la scrollai; ma questo servì solo a farla piangere maggiormente. — Io non ti conosco, forse? Parla, donna! Tu sei la padrona del Nido dell'Anitra. Portami là!
— Non posso, ho paura. Dammi il tuo braccio, sieur, per favore. Dobbiamo ripararci al chiuso.
— Ottimo. Andremo al Nido dell'Anitra. Non può essere lontano... ed ora che cosa c'è?
— È troppo lontano! — pianse la donna. — Troppo lontano!
C'era qualcosa là nella strada insieme a noi. Non so se non mi ero accorto io del suo avvicinarsi o se si era mantenuta nascosta fino ad allora, certo è che apparve improvvisamente. Ho sentito dire, da gente che ha terrore dei topi, che le è possibile percepire la presenza di quegli animali nel momento in cui entrano in una casa, anche se i ratti non sono visibili; e così era adesso per me. Avvertivo un che di rovente ma privo di calore, e, sebbene l'aria fosse senza odori, avevo la sensazione che non avesse più il potere di sostentare la vita. La donna sembrava non essersi ancora accorta di quella presenza.
— Dicono che abbia bruciato tre persone la notte scorsa, vicino all'arena, ed un'altra stanotte, nei paraggi del Vincula. Ed ora Jurmin. Sta cercando qualcuno... questo è quello che si dice.
— E credo che lo abbia trovato — replicai, rammentando le notule e la creatura che si era aggirata strisciando lungo i muri dell'Anticamera della Casa Assoluta.
Lasciai andare la donna e mi girai ripetutamente su me stesso, cercando di capire dove fosse la creatura. Il calore si fece più intenso, senza però che apparisse alcuna luce, tanto che provai la tentazione di tirar fuori l'Artiglio per servirmi del suo bagliore per vedere. Ma poi, rammentando come esso avesse destato l'essere che dormiva sotto la miniera degli uomini-scimmia, ebbi timore che la sua luce permettesse solo a questo essere... qualsiasi cosa fosse... di localizzarmi. Avevo il dubbio che la spada non mi sarebbe servita contro questa creatura più di quanto mi fosse servita contro le notule, davanti alle quali Jonas ed io eravamo fuggiti nel boschetto di cedri; comunque la sguainai.
Quasi nello stesso istante, si udì un battere di zoccoli ed un grido, mentre due dimarchi giravano un angolo a non più di cento passi di distanza. Se ci fosse stato più tempo, avrei sorriso per il modo in cui le figure dei due dimarchi si attagliavano a quelle che avevo immaginato poco prima, ma il bagliore delle loro lance illuminò qualcosa di scuro, contorto e curvo che si trovava fra me ed i dimarchi.
La creatura si volse verso la fonte di luce, quale che fosse, e parve schiudersi come un fiore, facendosi sempre più alta e sottile con una rapidità tale da non poter quasi essere seguita dall'occhio, fino a trasformarsi in una creatura abbagliante ma somigliante ad un rettile, come quei serpenti multicolori che vengono importati dalle giungle del nord e che sembrano smalti colorati e non rettili. Le cavalcature dei soldati indietreggiarono con strida di terrore, ma uno dei due uomini, mostrando più presenza di spirito di quanta ne avrei avuta io, fece fuoco con la sua lancia contro il cuore della cosa che aveva di fronte. Ci fu un lampo di luce.
La padrona del Nido dell'Anitra si accasciò contro di me, ed io, non desiderando perderla, la sostenni con il braccio libero.
— Credo che quella cosa cerchi il calore corporeo — le dissi. — Dovrebbe attaccare i destrieri. Riusciremo a fuggire.
Nel momento stesso in cui parlai, la cosa si volse verso di noi.
Ho già detto che, vista di dietro, quando si era aperta per fronteggiare i due dimarchi, la cosa sembrava un fiore serpentino. Quell'impressione persistette ora che la vedevo frontalmente, in tutto il suo terrore e la sua gloria, ma ad essa se ne unirono altre due. La prima fu una sensazione di calore estremo ed alieno: la cosa sembrava sempre un rettile, ma un rettile che bruciava in un modo ignoto su Urth, come se qualche aspide del deserto fosse andato a cadere su una palla di neve.
La seconda impressione fu che la cosa agitasse le estremità simili a stracci in un vento che non era fatto d'aria: sembrava ancora un fiore, ma un fiore i cui petali bianchi, giallo pallido e rosso fuoco, erano stati lacerati e rovinati da una mostruosa tempesta generata dal cuore stesso della cosa.
Tutte queste impressioni erano circondate ed intrise di un senso di orrore tale che non sono in grado di descriverlo, e che mi privò di ogni forza e risolutezza, tanto che per un momento non riuscii né a fuggire né ad attaccare. La creatura ed io sembrammo immobilizzati in una matrice di tempo che non aveva nulla a che fare con il passato o il futuro, e che, dal momento che teneva immobili noi che ne eravamo i soli occupanti, non poteva essere alterata da nulla.
Un urlo spezzò l'incantesimo: un secondo gruppo di dimarchi era entrato nella strada, alle nostre spalle, e, avendo avvistato la creatura, aveva lanciato alla carica le cavalcature. Nello spazio di un respiro, essi ci furono intorno, e fu solo per intercessione della Santa Katharine che non venimmo calpestati a morte. Se mai ho dubitato del coraggio dei soldati dell'autarca, allora persi ogni dubbio, poiché entrambe le pattuglie si lanciarono addosso al mostro come mastini su un cervo.
Fu inutile. Ci fu un lampo accecante ed una sensazione di tremendo calore, e, sempre sostenendo la donna semisvenuta, mi misi a correre giù per la strada.
Avevo intenzione di svoltare nel punto da cui erano arrivati i dimarchi, ma, in preda al panico com'ero (e non era solo il mio panico, ma anche quello di Thecla che stava urlando nella mia mente), svoltai troppo presto o troppo tardi, e, invece della ripida discesa verso la città bassa, che mi aspettavo di trovare, finii in un piccolo cortile senza uscita costruito su uno spuntone roccioso che sporgeva dalla collina. Quando mi accorsi dell'errore, la creatura, che era tornata ad essere un'entità bassa e contorta ma emanante un terribile calore, era già all'imboccatura del cortile.
Sotto la luce delle stelle, sarebbe potuta sembrare un vecchio curvo con un cappotto nero, ma non ho mai provato un terrore simile a quello che mi diede la sua vista. Sul retro del cortile c'era uno jacal, più grosso di quello abitato dalla ragazza malata e suo fratello, ma ugualmente costruito con stecchi e fango. Spalancai la porta con un calcio e corsi dentro, attraversando una serie di piccole stanze ripugnanti, passando dalla prima nella seconda e di qui alla terza dove dormivano una mezza dozzina di uomini ed una donna, ed infine in una quarta... ma solo per trovarmi davanti ad una finestra che si affacciava sulla città in modo molto simile a quella delle mie camere, nel Vincula. Quella era la fine, la camera più lontana della casa, sospesa come un nido di rondine su un precipizio che, in quel momento, mi parve senza fondo.
Potei sentire le voci irate delle persone che avevo destato giungere dalla stanza accanto. La porta si spalancò, ma chiunque era venuto per porre fine alla nostra invasione, dovette scorgere il bagliore di Terminus Est, poiché si arrestò con un imprecazione e si volse per allontanarsi. Un momento più tardi, qualcuno urlò, ed io compresi che la creatura di fuoco era entrata nello jacal.
Tentai di far stare eretta la donna, ma lei si accasciò in un mucchio ai miei piedi. Fuori dalla finestra non c'era nulla... il muro di fango terminava qualche cubito più in giù, ed i sostegni del pavimento finivano con esso. In alto, il tetto sporgente e coperto di paglia marcita non offriva alcun appiglio alle mie mani. Mentre lottavo per aggrapparmi ad esso, ci fu un lampo di luce che annientò ogni colore e proiettò ombre scure come la fuliggine, ombre che sembravano fessure nell'intelaiatura del cosmo. Allora compresi che dovevo combattere e morire come erano morti i dimarchi, oppure saltare la finestra, e mi volsi per fronteggiare la cosa che era venuta per uccidermi. Essa si trovava ancora nell'altra stanza, ma potevo vederla attraverso la porta spalancata, e notai che si era nuovamente aperta come aveva fatto in strada. Il corpo semiconsunto di una povera vittima giaceva davanti alla casa sul pavimento di pietra, e, mentre l'osservavo, la cosa parve chinarsi su di essa in un atteggiamento che, ci avrei giurato, sembrava quasi d'indagine. La pelle della vittima si coprì di vesciche e sfrigolò come il grasso di un arrosto, poi cadde. Un momento più tardi, anche le ossa non erano più altro che pallide ceneri che la creatura sparpagliò nell'avanzare.
Credo che Terminus Est sia la migliore lama mai forgiata, ma io sapevo che non avrebbe potuto fare nulla contro il potere che aveva annientato così tanti soldati, per cui la gettai da un lato, nella vaga speranza che potesse un domani essere ritrovata e restituita al Maestro Palaemon; quindi trassi l'Artiglio dalla sua sacca.
Quella era la mia ultima, debole speranza, e vidi subito che anch'esso non mi avrebbe aiutato. Quale che fosse il modo in cui la creatura sondava il mondo che la circondava (e dai suoi movimenti era chiaramente comprensibile che essa era totalmente cieca sulla nostra Urth), era capace di percepire la gemma, e non la temeva. La sua lenta avanzata si trasformò in un rapido fluire animato da uno scopo preciso, ma quando raggiunse la soglia... ci fu uno sbuffo di fumo, un crollo, ed essa scomparve. Una luce proveniente dal disotto brillava attraverso il buco che la cosa aveva praticato involontariamente nel pavimento con il suo calore, là dove finiva lo strato di roccia e cominciava la sottile pavimentazione in legno. All'inizio, dal buco trapelò la luce incolore della creatura, quindi ci fu una rapida successione di tinte pastello... azzurro, lilla e rosa. Poi rimase solo la debole e rossiccia luce delle fiamme.
X
PIOMBO
Ci fu un momento in cui pensai che sarei caduto nel buco apertosi nel centro della stanza prima di riuscire a recuperare Terminus Est ed a portare in salvo la padrona del Nido dell'Anitra, ed un altro istante in cui pensai che sarebbe crollato tutto... la tremante struttura della stanza e noi con essa.
Eppure, alla fine ci salvammo. Quando raggiungemmo la strada, essa era sgombra sia di dimarchi che di cittadini, perché senza dubbio i soldati erano stati attirati dal fuoco sottostante e gli abitanti erano stati indotti dalla paura a rinchiudersi in casa. Sostenni la donna con un braccio, e, sebbene fosse ancora troppo inorridita per poter rispondere coerentemente alle mie domande, lasciai che fosse lei a scegliere la strada da seguire, e, come avevo supposto, mi condusse senza sbagliare fino alla locanda.
Dorcas stava dormendo, ed io non la svegliai, ma mi sedetti al buio su un piccolo sgabello posto vicino al letto, accanto al quale si trovava ora anche un tavolinetto grande quanto bastava per reggere la bottiglia ed il bicchiere che mi ero portato su dalla sala comune. Il vino mi sembrava forte al gusto, ma il suo effetto era minore di quello dell'acqua una volta che lo avevo inghiottito, e, quando Dorcas si svegliò, avevo già bevuto oltre mezza bottiglia senza risentirne più che se avessi bevuto altrettanto sherbet.
Dorcas fece per sollevarsi, ma poi lasciò cadere il capo sul cuscino.
— Severian. Avrei dovuto sapere che eri tu.
— Mi dispiace di averti spaventata — dissi. — Sono venuto a vedere come stai.
— Molto gentile da parte tua, anche se mi sembra sempre che tu sia chino su di me, quando mi sveglio. — Per un momento, i suoi occhi si richiusero. — Cammini molto silenziosamente, con quei tuoi stivali dalla suola spessa, lo sapevi? È uno dei motivi per cui la gente ti teme.
— Una volta, mi hai detto che ti facevo pensare ad un vampiro perché avevo mangiato una pomogranata ed avevo le labbra macchiate di rosso, e ne abbiamo riso. Te lo rammenti? — (Era successo in un campo, alle spalle del Muro di Nessus, quando avevamo dormito vicino al teatro del Dr. Talos ed al risveglio avevamo fatto festa con i frutti che il nostro pubblico in fuga aveva lasciato cadere la sera precedente).
— Sì — rispose Dorcas. — Tu vorresti che io ridessi di nuovo, vero? Ma temo che non potrò ridere mai più.
— Ti andrebbe un po' di vino? È gratis, e non è cattivo come mi sarei aspettato.
— Perché mi rallegri? No. Credo che si debba bere quando si è già allegri, altrimenti non si versa nella coppa che altro dolore.
— Almeno, bevi un sorso. L'ostessa ha detto che ti sei sentita male e che non hai mangiato tutto il giorno.
Allora vidi la testa dorata di Dorcas muoversi sul cuscino mentre si girava verso di me, e, siccome mi sembrava perfettamente sveglia, mi azzardai ad accendere una candela.
— Indossi il tuo abito — osservò Dorcas. — Devi averla spaventata a morte.
— No, non ha avuto paura di me, ed ora è occupata a riempirsi il bicchiere con tutto quello che riesce a trovare.
— È stata buona con me... è molto gentile. Non essere duro con lei, se le va di bere ad un'ora tanto tarda.
— Non intendevo essere duro nei suoi confronti. Ma non ti andrebbe qualcosa? Ci dev'essere un po' di cibo nella cucina, e ti porterò su tutto quello che ti va.
Le parole da me scelte la fecero sorridere debolmente.
— Non ho fatto altro che ingoiare cibo tutto il giorno. O forse non te lo ha detto? Ho vomitato. Credevo che se ne sentisse ancora l'odore, anche se quella povera donna ha fatto del suo meglio per ripulire. — Dorcas fece una pausa ed annusò l'aria. — Cos'è quest'odore? Tessuto bruciato? Dev'essere la candela, ma non credo che tu possa affilare lo stoppino con quella tua grande spada.
— Credo che sia il mio mantello — spiegai. — Sono stato troppo vicino al fuoco.
— Ti chiederei di aprire la finestra, ma vedo che è già aperta, e temo che ti dia fastidio, perché fa tremolare il lucignolo. Quelle ombre incerte non ti fanno girare la testa?
— No. Va tutto bene, fino a che non fisso la fiamma.
— Dalla tua espressione, mi sembra che tu provi per il fuoco quello che io provo sempre vicino all'acqua.
— Questo pomeriggio ti ho trovata seduta proprio in riva al fiume.
— Lo so — replicò Dorcas, e cadde nel silenzio, un silenzio che si protrasse tanto a lungo da farmi temere che non avrebbe più parlato e che il mutismo patologico (ora ero certo che si fosse trattato di questo) che si era impadronito di lei l'avesse assalita ancora.
— Sono rimasto sorpreso di trovarti là — azzardai infine, — e rammento che ho guardato più volte prima di essere sicuro che fossi tu, anche se ti stavo cercando.
— Ho vomitato, Severian. Te l'ho già detto, vero?
— Sì, me lo hai già detto.
— Lo sai che cosa ho vomitato?
Stava fissando il basso soffitto in un modo che mi dava l'impressione che vedesse su di esso un altro Severian, quel Severian dolce ed addirittura nobile d'animo che esisteva soltanto nella sua mente. Suppongo che tutti noi, quando siamo convinti di parlare intimamente a qualcun altro, ci rivolgiamo in effetti ad un'immagine da noi forgiata della persona con cui crediamo di parlare, ma questa volta mi sembrava che ci fosse qualcosa di più: avevo la sensazione che Dorcas avrebbe continuato a parlare anche se io fossi uscito dalla stanza.
— No — risposi. — Acqua, forse?
— Proiettili di fionda.
— Dev'essere stata una cosa molto spiacevole — commentai, pensando che stesse esprimendosi per metafore.
La sua testa si mosse ancora sul cuscino, ed ora potei vedere i due grandi occhi azzurri dilatati; nel vuoto di quelle pupille sembravano danzare due piccoli spettri bianchi.
— Proiettili di fionda, mio caro Severian. Piccoli, pesanti proiettili di metallo, ciascuno con il diametro di una nocciola, un po' meno lunghi del mio pollice, e con su stampata la parola colpire. Sono usciti dalla mia gola e sono caduti tintinnando nel secchio, ed io ho infilato la mano nella sporcizia che era uscita insieme ad essi e li ho raccolti per vederli. La padrona della locanda è venuta ed ha portato via il secchio, ma io li avevo già puliti e conservati. Sono due, ed ora si trovano nel cassetto del tavolo che la donna ha portato su per appoggiarvi la mia cena. Li vuoi vedere? Apri il cassetto.
Non riuscivo ad immaginare che cosa stesse dicendo e le chiesi se pensava che qualcuno cercasse di avvelenarla.
— No, niente affatto. Non vuoi aprire il cassetto? Tu sei tanto coraggioso: non vuoi guardare?
— Ti credo. Se tu dici che ci sono proiettili di fionda nel cassetto, sono certo che ci sono davvero.
— Ma non credi che io li abbia vomitati. Non ti biasimo. Non esiste una storia che riguarda la figlia di un cacciatore cui venne fatto dono di un incantesimo per cui, quando parlava, le cadevano perle nere dalla bocca? E allorché la moglie di suo fratello le rubò l'incantesimo, dalle sue labbra scaturirono solo rospi quando parlava? Ricordo di averla sentita, ma non ci avevo mai creduto, prima.
— Ma come potrebbe una persona vomitare oggetti di piombo?
— Facilmente, molto facilmente. — Dorcas rise, ma senza allegria. — Lo sai che cosa ho visto oggi? Lo sai perché non ti ho potuto parlare quando mi hai trovata? E non potevo farlo, Severian, te lo giuro. So che tu hai creduto che fossi arrabbiata e caparbia, ma non lo ero... ero divenuta come una pietra, incapace di parlare, perché sembrava che nulla avesse importanza, e non sono ancora sicura che non sia così. Mi dispiace per quello che ti ho detto... che non sei coraggioso. Tu sei coraggioso, lo so, è solo che il tuo non mi sembra più coraggio, quando fai quelle cose a quei poveri prigionieri. Eri così coraggioso quando hai combattuto contro Agilus, e poi quando sei stato pronto a batterti con Baldanders perché credevamo che stesse per uccidere Jolenta... — Piombò nuovamente nel silenzio, poi sospirò: — Oh, Severian, sono così stanca.
— Volevo discutere di questo, dei prigionieri — dissi. — Voglio che tu capisca, anche se non mi potrai perdonare. Quella era la mia professione, la cosa che mi era stata insegnata a fare fin dall'infanzia. — Mi chinai in avanti e le presi la mano, che mi parve fragile come un uccello canterino.
— Hai già detto in precedenza qualcosa del genere. Io ti comprendo, davvero.
— Ed io sapevo farlo bene, Dorcas. Questo è quello che tu non capisci. La tortura e le esecuzioni capitali sono arti, ed io ho il tatto, il dono, la benedizione. Questa spada... tutti gli strumenti che noi usiamo, vivono nelle mie mani. Se fossi rimasto nella Cittadella, sarei potuto diventare un Maestro. Dorcas, mi stai ascoltando? Questo non significa nulla per te?
— Sì — rispose. — Un po', sì. Ho sete. Se hai finito di bere, adesso versami un po' di vino, per favore.
Feci come mi aveva chiesto, riempiendo il bicchiere solo per un quarto, nel timore che lo potesse versare e macchiare così le lenzuola.
Dorcas si sollevò a sedere per bere, una cosa che, fino ad un momento prima, non ero stato certo che fosse in grado di fare, e, dopo aver bevuto fino all'ultima goccia il liquido scarlatto, gettò il bicchiere fuori dalla finestra. Lo sentii infrangersi nella strada sottostante.
— Non voglio che tu beva dopo di me — mi spiegò. — E sapevo che avresti bevuto se non avessi agito così.
— Allora pensi che il tuo male sia contagioso?
— Sì — rise nuovamente Dorcas, — ma tu sei già contagiato. Lo hai contratto da tua madre. La morte. Severian, non mi hai ancora chiesto che cos'era quello che ho visto oggi.
XI
LA MANO DEL PASSATO
Non appena Dorcas mi fece osservare che non le avevo ancora chiesto che cosa avesse visto quel giorno, mi resi conto che avevo cercato di allontanare la conversazione da quell'argomento. Avevo la sensazione che si sarebbe trattato di qualcosa assolutamente privo di significato per me ed a cui Dorcas avrebbe invece attribuito una grande importanza, come fanno spesso i pazzi quando pretendono che i segni lasciati dai vermi sotto la corteccia degli alberi siano una sorta di scrittura sovrannaturale.
— Pensavo che sarebbe stato meglio allontanare la tua mente da questo argomento, di qualunque cosa si tratti — risposi.
— Lo sarebbe indubbiamente, se solo potessimo farlo. Era una sedia.
— Una sedia?
— Una vecchia sedia, un tavolo e parecchie altre cose. Nella Strada dei Tornitori sembra esserci un negozio che vende vecchio mobilio agli eclettici ed a quegli autoctoni che hanno assorbito quanto basta della nostra cultura per desiderarli. Qui non esistono fonti adeguate per sopperire alle richieste di quel tipo di materiali, così, due o tre volte all'anno, il proprietario del negozio ed i suoi figli vanno a Nessus... nei quartieri abbandonati del sud... e riempiono la loro barca. Ho parlato con il padrone, sai, e so tutto in proposito. Laggiù ci sono decine di migliaia di case vuote: alcune sono crollate molto tempo fa, ma altre sono ancora come le hanno lasciate i proprietari. La maggior parte di quelle case sono state saccheggiate, eppure qua e là si trovano ancora pezzi d'argento ed articoli di gioielleria. Ed anche se quasi tutto il mobilio è andato perduto, i proprietari, nell'andarsene, si sono sempre lasciati dietro qualcosa.
Ebbi l'impressione che stesse per piangere, e mi protesi in avanti per accarezzarle la fronte. Con un'occhiata, Dorcas mi fece capire che non gradiva il mio gesto, e tornò a sdraiarsi sul letto.
— In alcune case, poi, l'arredo è ancora completo — proseguì. — L'uomo ha detto che per lui sono le migliori. Lui pensa che alcune famiglie, o forse solo alcuni individui, siano rimasti lì a vivere da soli, quando il quartiere è morto. Forse erano troppo vecchi per andarsene, o troppo cocciuti. Ci ho riflettuto sopra, ed ho concluso che quelle persone dovevano avere laggiù qualcosa che non potevano lasciarsi alle spalle, forse la tomba di un familiare. Comunque, esse sprangarono le finestre per difendersi dai razziatori, e presero dei cani, ed esseri anche peggiori, per proteggersi. Alla fine se ne andarono o giunsero al termine della vita, ed i loro animali divorarono i corpi e poi fuggirono. Ma ormai laggiù non c'era più nessuno, né razziatori né sciacalli, almeno fino all'arrivo di quest'uomo e dei suoi figli.
— Deve esserci una quantità di vecchie sedie — osservai.
— Non come quella. Conoscevo tutto di essa... le incisioni sulle gambe e perfino i disegni tracciati sui braccioli. Allora mi tornarono in mente molte cose. E poi, qui, quando ho vomitato quei pezzi di piombo, simili a semi duri e pesanti, ho compreso. Ti rammenti, Severian, com'era quando abbiamo lasciato il Giardino Botanico? Tu, Agia ed io siamo usciti da quel grande vivaio di vetro e tu hai noleggiato una barca perché ci portasse dall'isola a riva, ed il fiume era pieno di neufari dai fiori azzurri e dalle verdi foglie scintillanti. I loro semi sono scuri, duri e pesanti come quel piombo, ed io ho sentito dire che sprofondano nel letto del Gyoll e vi rimangono per intere ere del mondo. Eppure, quando il caso li riporta vicino alla superficie, essi fioriscono, non importa quanto siano antichi, cosicché si possono veder rifiorire boccioli risalenti ad una chiliade fa.
— L'ho sentito dire anch'io — replicai, — ma questo non significa nulla per te e per me.
Dorcas era immobile, ma la voce le tremava.
— Qual è il potere che li richiama in vita? Me lo sai dire?
— La luce del sole, suppongo... ma no, non lo so spiegare.
— E non esiste altra fonte di luce che non sia il sole?
Sapevo che cosa intendeva dire, anche se in me c'era qualcosa che m'impediva di accettarlo.
— Mentre ci traghettava sul Lago degli Uccelli, quell'uomo... Hildegrin, quello che abbiamo incontrato per la seconda volta sulla tomba fra le rovine della città di pietra... ci ha parlato dei milioni di morti i cui corpi sono stati fatti sprofondare in quelle acque. Come venivano fatti affondare, Severian? I corpi galleggiano. Come venivano appesantiti? Io non lo so. Lo sai tu?
— Venivano infilati loro in gola proiettili di piombo.
— Lo pensavo. — Adesso la sua voce era tanto sottile che riuscivo a stento ad udirla, anche in quella stanza piccola e silenziosa. — No, lo sapevo. L'ho saputo nel momento in cui ho visto quei pezzi di piombo.
— Tu pensi che l'Artiglio ti abbia riportata in vita? Dorcas annuì.
— Ammetto che talvolta abbia avuto effetto, ma solo quando l'ho tolto dalla sacca, ed anche allora non sempre. Allorché tu mi hai tirato fuori dall'acqua, nel Giardino del Sonno Eterno, l'Artiglio era nella mia giberna, e non sapevo neppure di averlo.